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Incatenati dalla libertà?

La titolarità dell’azione è quindi la vittima predestinata di questa sequenza di crimini. Il paziente rimane soggetto solo in quanto “soggetto passivo di esperienza” perdendo la propria capacità di eseguire atti consapevoli (l’actus humanus) e responsabili. In una parola, perde la propria libertà.

Egli resta confinato in un limbo, dotato di un Io continuamente sub iudice, nell’attesa di un indefinito ed indefinibile compimento. L’attesa è però piatta e vana, non abita il tempo nel suo ad-tendere, è bensì un non-tempo vuoto di avvenimenti.

Egli scarta ogni ipotesi di sé (e del mondo che lo circonda) che non rispetti un ideale precostituito e perfetto, un ipotetico e generico appagamento del proprio desiderio; quest’ultimo peraltro viene definito solo in negativo, come mancanza di difetto. È un ideale vuoto anch’esso, perché non incarnato: è non-esistenza, non-scelta, non è nulla in particolare, è l’abbandono di nessuna via. Il tempo trascorso è tempo perso perché imperfetto, segnato dalla ferita dell’e-sistenza; e, del resto, verso l’ideale non ci si incammina per non restare vittima del frattempo.

È paradossalmente la non-libertà della totipotenza, frutto di un drammatico fraintendimento: che la libertà sia rappresentata dall’assenza della perdita, mentre essa è essenzialmente la perdita1.

In ciò, occorre liberare le spalle del paziente di una buona parte di responsabilità – qualcosa ci invita tutti ad essere così: nel nostro tempo non si può non essere liberi.

Oltre la sindrome

Quanto scrivo da qui in poi è infatti valido per il paziente nello specifico, ma è applicabile in una certa misura a grandi aree della società civile che rappresenta ai suoi occhi (e troppo spesso anche ai nostri) la norma di riferimento. Mi sembra del resto utile soffermarmi sul contesto culturale che sostiene questa (nuova?) psicopatologia per diverse finalità: la migliore comprensione del singolo caso, innanzitutto; ma anche la riflessione sulle dinamiche sempre più morbose che si insinuano in una società che diventa gradualmente sempre più “patogena”.

Nuova?, mi chiedo. Torno brevemente alle parole di Castellana2:

«Emergente» non significa «nuovo», si riferisce invece a qualcosa che non è nuovo, anzi è sempre esistito, ma va acquistando un’importanza crescente in relazione alla sua maggiore visibilità, dovuta ad una mutata condizione, per lo più ambientale (o socio-culturale), che ne permette il fenomeno della proliferazione. In ciò, a mio avviso, il «nuovo».

Ciò che ho avuto modo di osservare – e che maggiormente dovrebbe destare allarme – è dunque non solo la crescente frequenza della particolare configurazione psicopatologica sin qui descritta, quanto piuttosto la presenza di un “brodo di coltura” che tiene in incubazione una moltitudine di casi analoghi dall’espressività più varia e che minaccia di spingere una intera generazione nella medesima direzione. In sintesi, se questi pazienti sono congelati in una vetero-adolescenza patologica e dolorosa, il modello sociale invita tutti ad identificarsi in un irraggiungibile modello adolescente senza età, senza conflitto, senza dolore, senza perdita.

Ne sono presupposti alcuni assiomi culturali, molti dei quali non sottoponibili a critica, giacché dubitarne produce una moderna accusa di empietà.

La centralità dell’individuo.

Il primo di questi assiomi è la centralità dell’individuo, reificazione della persona, individuo fra gli individui, cosa fra le cose, indegno di valore per se. Il valore della persona è nell’esistenza stessa, il valore dell’individuo giunge invece attraverso un’attribuzione. Alla persona soggetto di valore si sostituisce – come detto – l’individuo soggetto di diritto, il cui valore discende dalla situazione, dalle connotazioni, non dall’essere ma dal “come” si è. In assenza di un valore intrinseco, si fa largo l’imperfezione come segno di insufficienza. Il valore (l’imperfezione come segno dell’esistenza), lungi dal diventare semplicemente indifferente, si trasforma quindi in vero e proprio disvalore. Questo metro è applicabile a sé come al Mondo, in un progressivo e reciproco svuotamento di senso.

Ne scaturisce una rincorsa verso il self, una fuga verso l’interno che produce di volta in volta stucchevole intimismo, comoda misantropia, goffo giustificazionismo nei confronti delle condotte “egoistiche”.

Il relativismo.

Secondo assioma è il relativismo. La teoria della relatività è origine della più grande mistificazione culturale del Novecento: essa viene citata per ricordare che tutto è relativo, ma si dimentica che la Relatività Generale sostiene al contrario che tutto è relativo “a” 3. La seconda parte della proposizione è dimenticata in favore di un relativismo che ritiene ogni asserzione ugualmente vera, ogni principio ugualmente valido. È questa la “notte in cui tutte le vacche sono nere”, in cui tutte le norme sono formali, in cui ogni limitazione alla libertà dell’individuo4 è innaturale: ma, in questo percorso, si cerca la libertà e si trova piuttosto l’anomia. Metro unico dell’Universo è dunque di nuovo l’individuo, lasciato nella sua solitudine.

La libertà del corpo

Il problema del corpo si riveste a questo punto di nuova luce. Il corpo-luogo, non vissuto, non abitato, è un corpo non scelto. Esso è giunto alla propria inevitabile maturazione e da corpo sessuale si è trasformato in corpo sessuato; al crocevia di questa trasformazione giace persa l’adolescenza.

In principio era la natura. Sfondo nel quale e contro il quale si è formata la nostra idea di Dio, la natura resta il problema morale supremo. Non possiamo sperare di comprendere il sesso e la differenza sessuale finché non avremo chiarito il nostro atteggiamento verso la natura. Il sesso è una categoria della natura, è il naturale nell’uomo.5

La radicale presa di posizione di Camille Paglia apre la questione del corpo in tutta la sua ineluttabilità: nel corpo – corpo sempre sessuato – si combatte il conflitto contro la natura e contro l’identità dell’Altro (l’Altro che per principio è innanzitutto l’alterità sessuale) la violenza dell’Essere per cui omnis determinatio est negatio.

L’espulsione della violenza

La violenza cionondimeno è stata dializzata fino a diventare puro concetto, espulsa dallo spazio antropologico nella quale non ritrova diritto di cittadinanza. Ma essa fa parte della natura e dell’esistenza, anzi:

All’essere è così connaturata, da rappresentarne l’epifania più certa.6

La violenza non si lascia dunque espellere da altro che dallo spazio conscio del soggetto e dalla rappresentazione collettiva esplicita, torna in mille modi e dietro mille maschere, lasciando il soggetto impreparato alle sue manifestazioni, stupefatto, soverchiato.

Incapaci di decodificare la violenza subita, i nostri pazienti si trovano al centro di un perverso processo vittimario, ove il loro soccombere salva tutti (primi i genitori e quindi loro stessi) e ripristina idealmente la condizione originale di innocenza annullando la possibilità stessa del male.

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  1. Se la libertà è frutto di un actus humanus responsabile e consapevole, esso è tale nella misura in cui opera una scelta; quest’ultima, a sua volta, implica due possibilità, una delle quali viene persa. La libertà è dunque la rinuncia a tutto ciò che non si è scelto, in favore di ciò che si è responsabilmente scelto.
  2. Castellana, ibid., p. 133.
  3. Nella fattispecie, alla velocità della luce (“c“, ovvero la costante universale).
  4. Non spiego nuovamente quanto siano pregnanti nella discussione questi due termini.
  5. Paglia, 1993, p. 3.
  6. Givone, 2000, p. 3.