Volevo scrivere un furibondo rant su un fastidioso scambio avuto alcuni giorni fa, ma ne stava uscendo un saggio di filosofia della medicina. Allora racconto solo un fattarello. Molti anni fa, mi facevo i fatti miei in stanza medici; arrivano due giovani specializzandi con un pacco di cartelle e iniziano a sfogliare. Devono scrivere le diagnosi.
–Depresso da due settimane?
–Sì
–Insonnia o ipersonnia?
–No
–A quanti siamo?
–3
–Vabbè, dai, dorme poco: 4
E fu così che gira e rigira i criteri per il disturbo x vennero soddisfatti (perché il paziente, sennò, non entrava in nessuna casella). Il punto che mi preme è che i “dati” non sono un fenomeno naturale che ci cade fra le braccia: vanno raccolti, puliti, interpretati. A volte vanno anche cercati sulla base di una ipotesi o di un’intuizione. E, sempre, rappresentano una descrizione aggregata (e quindi verosimile ma sempre falsa) delle mille singolarità che descrivono.
Tutto quello che è prima dei dati, che è dopo (l’uso, le interpretazioni, le strategie) e a volte anche durante (riguardo tutti i bias e i pregiudizi) è molto, molto umano e incerto. Non c’è nulla di male in questo, salvo quando ce lo dimentichiamo. Perché a quel punto si innescano degli automatismi cui obbediamo ciecamente ma che NON sono fatti per risolvere problemi mal posti. Quindi sbagliano.
La medicina usa i dati, ma non è fatta dai dati.