← Capitolo 5

Il corpo

Le caratteristiche fin qui descritte pongono il paziente in una condizione assolutamente peculiare. Benché, come già anticipato e ulteriormente precisato sotto, egli mantenga alcune caratteristiche tipicamente adolescenziali, il paziente non è adolescente – e non solo per sopraggiunti limiti di età.

Per quanto apparentemente banale, manca innanzitutto quel correlato biologico che segna in modo inequivocabile la trasformazione: la maturazione sessuale somatica. Il cambiamento incontrovertibile del corpo è, prima che specchio, motore stesso del cambiamento, suo riscontro, suo indelebile segno.

Nel nostro caso, invece, il corpo è uno spazio senza tempo, un luogo immobile, disabitato, non simbolizzato. Percepito per contiguità anziché in continuità, esso è uno spazio fobico in cui si agitano pulsioni ignote e non decodificabili, colto prevalentemente nelle sue potenzialità morbose e vissuto come oggetto: a volte come proprietà, altre volte, per via dell’influenza che esercita sulla vita quando si ammala, come tirannico proprietario. Nelle manifestazioni somatoformi caratteristiche dei pazienti con il panico come sintomo-chiave, il corpo da oggetto diventa addirittura solo luogo, ove il sintomo incomprensibile emerge all’improvviso e tende i proprî agguati.

Sempre, comunque, è estraneo e spaventa già come corpo, ben prima di essere dunque corpo sessuato.

La cura che il paziente esercita sul corpo è cura del funzionamento, più che dell’aspetto: il corpo è bello se sano, se in armonia con l’ambiente, se non genera disturbi1. Nella gestione del corpo, il paziente rivela decisi tratti fobico-anancastici: diffida dei farmaci o di quanto lo espropri del controllo su di esso, controllo che esercita, ad esempio, anche nella selezione del cibo.

Oppositività e individuazione

Sorprendentemente, nella ricostruzione della storia scopriamo che un numero elevato di pazienti ha manifestato una elevata oppositività durante il periodo dell’adolescenza propriamente detta, il che apparentemente contrasta con l’atteggiamento conformista di cui si è parlato.

La funzione della dialettica conflittuale con le figure di riferimento dovrebbe essere quella di specchio e limite:

La funzione di “specchio” che l’adulto inizia ad assumere nei confronti del pre-adolescente rispetto ai cambiamenti somatici, si integra quindi progressivamente con quella di “limite”. Lo specchio restituisce la definizione della nuova immagine nei suoi aspetti considerati accettabili e inaccettabili e al tempo stesso il mantenimento di quella vecchia al fine di non provocare o comunque di limitare l’esperienza di frattura dolorosa con se stesso e con gli altri significativi. Il limite rappresenta sia il senso spaziale del confine alla dimensione esplorativa e del mantenimento all’appartenenza sia il senso psicologico di un confronto con le istanze dell’altro e di una differenziazione da esse.

Queste nuove qualità della funzione genitoriale emergono in un modo coerente con i bisogni di costruzione di un’identità centrata sull’autoconsapevolezza e sulla pecezione di un sé trasformato. Uno degli aspetti centrali del processo di definzione dell’identità è infatti individuabile nel bisogno di articolare una narrazione di sé che risponda alla necessità di fornire una coerenza, un’unitarietà e una continuità alla costitutiva molteplicità dei frammenti di esperienza e alla conseguente molteplicità delle rappresentazioni di sé e degli altri che si formano a partire da quelle esperienze.2

I genitori integrano dunque le funzioni di specchio e limite, favorendo il passaggio dal modello da imitare all’autoriflessività e trasformandosi da modello ideale in modello incarnato, personificato. L’adolescente, durante il proprio sviluppo, entra in contatto con le loro parti reali per rimodellare ed integrare le proprie, in un vissuto esperenziale estremamente fluido:

La dimensione molteplice dell’esperienza, non riducibile ad un senso univoco e coerente, diventa così la dimensione fondamentale dell’adolescenza. Si tratta di una molteplicità “sospesa”, rispetto alla quale i tentativi di attribuzione di senso sono continuamente in atto e al tempo stesso contraddetti non appena definiti.3

Nel caso dei nostri pazienti, l’oppositività perde di significato, perché manca ormai una figura di riferimento con le funzioni di modello-specchio-limite come quella che per l’adolescente è il genitore; il rapporto con il genitore reale è ormai cristallizzato in dinamiche sterili e ripetitive, i cui esiti sono previsti; le figure di riferimento sono tornate ad essere dunque quelle ideali ed interiorizzate (in particolar modo conta una imprecisata aspettativa sociale), verso le quali il confronto si annuncerebbe perdente sia sul piano pratico che simbolico, quindi inutile e dannoso.

Per interpretare correttamente l’oppositività presentata dal paziente nell’età dello sviluppo, occorre però approfondire il ruolo che effettivamente hanno avuto le figure genitoriali rispetto alla loro funzione di modello-specchio-limite.

Le dinamiche familiari che si rivelano in anamnesi sono improntate infatti a massicce triangolazioni e spostano sempre l’attenzione sul bisogno del genitore. La relazione con il paziente bambino oscilla continuamente fra fusionalità e diniego, attaccando ogni tentativo di quest’ultimo di identificarsi sin dalla tenera età (manovra ridefinita dal genitore – che fa largo uso di identificazioni proiettive, soprattutto sadiche – come un abbandono).

Giunto all’adolescenza, il paziente coglie – proprio nella sua non-psicoticità – l’esistenza del limite e intuisce i confini della propria identità pervicacemente negata. Non riuscendo a ricondurre il rapporto all’unità d’amore originaria e ad essere come il genitore lo immagina (il retaggio di questo tentativo resterà evidente attraverso il rapporto transferale), il paziente manifesta un’oppositività che si qualifica più come ricerca di un limite contenitivo che identificativo, finalizzato non tanto a definire i confini propri quanto piuttosto quelli del genitore. Il paziente sembra chiedersi fino a che punto sia possibile tirare la corda prima di indurre un cambiamento nella reazione del genitore, che nella sua impermeabilità non esercita la funzione di modello né di specchio, semmai piuttosto quella di muro. Il contrasto con l’autorità non lo aiuta quindi a definirsi, perché essa è lettera morta e non viene ricompresa in un rapporto di reciproco riconoscimento e quindi di senso. Al contrario, essa ribadisce l’indifferenza del genitore di fronte a qualsivoglia bisogno e la fantasia che il ritorno alla fusionalità sia l’unica strada per il ripristino dell’amore perduto.

La fine dell’adolescenza coincide con la presa di coscienza che nessuna separazione è possibile e che dunque l’identità del paziente sarà sempre perdente di fronte a quella – reale o interiorizzata – del genitore. Con essa termina anche l’oppositività, che lascia dunque il posto ad un circospetto conformismo.

Identità e temporalità

A fronte di tante differenze, sono invece tipicamente adolescenziali alcuni altri aspetti del vissuto temporale. Perché si costituisca un’identità occorre che il soggetto esperisca se stesso sempre uguale a se stesso nel tempo e medesimo soggetto di esperienza. Questa condizione è però inaccettabile per alcune implicazioni consecutive:

  • la percezione del tempo nella sua tripartizione di passato-presente-futuro;
  • la coscienza della nascita e della morte;
  • la storicizzazone della propria esperienza.

Il “tempo fermo” precedentemente rappresentato implica una modalità esistentiva caratterizzata invece da un tempo eterno, assoluto, ed istantaneo, in cui il problema della morte non si pone ed in cui l’esperienza non è storicizzata. Questo non-tempo è il tempo dell’Eden originario in cui non è possibile evolvere ed identificarsi, dunque essere, dunque abbandonare, dunque essere abbandonati e distrutti dalle istanze superegoiche onnipotenti.

Non adolescente né adulto

In conclusione, privo di alcune dimensioni caratteristiche dell’adolescenza, il paziente non può dirsi tale; appare altresì chiaro che esse non sono state sostituite dalle rispettive modalità esistentive adulte, lasciandolo in una situazione che non è nemmeno più di mezzo, bensì ha dignità di dimensione altra.

Caratteristica dell’adolescenza è – ad esempio – la totipotenza, ovvero la possibilità di essere qualsiasi cosa fintantoché non si sia nulla di definitivo. Il futuro, pur non pre-visto, né vissuto nel senso della programmazione, è però naturalmente dispiegato davanti al soggetto nella sua illimitata accessibilità. La totipotenza permane solo in assenza di atti concreti, ognuno dei quali comporta delle scelte e dunque la perdita irreversibile di possibili specifiche dimensioni future.

Il passaggio all’età adulta e tutti i fenomeni correlati di individuazione, di maturazione delle separazioni, di definizione di sé, della propria identità e dei ruoli, di determinazione dei propri orientamenti, in una parola della capacità/necessità di operare delle scelte responsabili, comporta l’inevitabile perdita di questa totipotenza trasformandola però progressivamente nel potere di eseguire atti.

Posto in una situazione adulta, ma privo delle suddette capacità, il paziente si rende conto all’esordio di non essere più totipotente, bensì impotente, quindi non più adolescente, ma non ancora adulto.

Capitolo 7 →


  1. Tutto ciò sembra calzare con quanto descritto da Castellana quando parla della “accentuazione della patologia somatica e ipocondriaca” (Castellana, ibid.).
  2. Canavelli, 2001, p. 106 e sgg.
  3. Canavelli, ibid.