“C’è del metodo in questa follia”, mormora fra sé uno sconcertato Polonio di fronte ai bizzarri ragionamenti di Amleto. È dunque pazzo il giovane Principe di Danimarca? Tutti a corte se lo chiedono – e la considerazione di Polonio non è di alcun aiuto.
In verità, lungo la tragedia il confine tra salute e follia viene scavalcato di continuo: Amleto simula con Polonio, ma nella Scena II del primo Atto così aveva risposto alla madre che lo incoraggiava a scrollarsi di dosso il malumore (elargendo ciò che da più parti è stato modernamente definito un eccellente ritratto della depressione):
Sembra, signora? No, non sembra, è; io non conosco “sembra”. Non è soltanto il mantello d’inchiostro, buona madre, né il mio vestir consueto, sempre così solennemente nero, né il sospirar violento del mio petto, né il copioso fluire dei miei occhi, né l’aspetto contratto del mio volto con gli altri segni e mostre del dolore, ad esprimere il vero di me stesso. Di tutto questo si può dir che “sembra”, perché questi son tutti atteggiamenti che ciascuno potrebbe recitare. Ma quel che ho dentro va oltre la mostra… queste esteriori son tutte gualdrappe, e livree del dolore, nulla più.
La sua ricerca di giustizia è lucida, ma i sentimenti che lo attraversano sono il lutto, lo sconcerto, il risentimento, la disperazione, la furia: una emotività in subbuglio che è facile sottostimare se ci si ferma al semplice gioco vero/falso nel quale sono, del resto, intrappolati gli altri personaggi.
Amleto, folle di rabbia, lucidamente simula la propria follia per dire ciò che non può dire altrimenti (e per costringere gli altri a fare lo stesso). E dove non arriva la comunicazione sghemba della vera o presunta follia, ecco il teatro a riempire lo spazio:
(altro…)Devo far recitar da questi attori qualcosa che, in presenza di mio zio, richiami l’assassinio di mio padre. Starò poi a spiar la sua reazione. Lo voglio scandagliare fino in fondo. Se appena accenna a un minimo sussulto, so quel che fare.