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Epidemiologia

I costi sociali di questa condizione sono considerevoli. Lo è tanto il peso indotto (sono persone che non producono) quanto quello indiretto (pesano sulla famiglia), ma dall’esordio in poi diventano enormi anche le spese vive: il più delle volte questi pazienti seguono una lunga psicoterapia (minimo due anni) e trattamenti psicofarmacologici costanti (non meno di un anno, usualmente a base di generose dosi di serotoninergici e benzodiazepine). Il disturbo, per quanto clinicamente lieve o compensato, grava per migliaia di euro l’anno sulle spalle del paziente o dello Stato; cionondimeno, comparirà difficilmente in statistiche o in voci di bilancio ufficiali perché è di difficilissima quantificazione: dapprima, perché è inquantificabile una mancata risorsa; dopo l’esordio, perché questi pazienti più raramente degli altri ricorrono al servizio pubblico non trovandovi il setting adatto. La involontaria capacità del paziente di sfuggire alle statistiche è peraltro un altro fatto non contingente: si tratta spesso di persone relativamente benestanti o comunque poco inclini a rivolgersi ad ambulatori pubblici (dove, comunque, la capacità di offrire psicoterapie analitiche a lungo termine è obiettivamente insufficiente) e capaci se necessario di affrontare le spese farmacologiche senza la puntuale prescrizione dello specialista pubblico. La prognosi del disturbo non trattato o rientrato in una fase di compenso, infine, è (almeno ipoteticamente) severa quoad functionem, visto che è prevedibile una ricaduta al successivo life-event. Parliamo quindi — mi si passi la metafora — di una massa oscura che nessuno vede al telescopio, ma dagli imponenti effetti gravitazionali.

Terapia e prevenzione

Alla fine di tutto, la terapia d’elezione è la psicoterapia o meglio ancora — laddove la clinica lo consenta o dopo la prima remissione della sintomatologia — la psicoanalisi. Il lavoro terapeutico è terribilmente complesso e richiede tempi piuttosto lunghi: al consueto lavoro analitico sui traumi, sui conflitti etc., occorre aggiungere un riesame dell’intero sviluppo per reintegrarlo nella continuità storica della biografia del paziente. Le resistenze sono rigide e stabili: va considerato che per il paziente la minaccia non è nel contenuto dell’inconscio, ma nelle implicazioni di una revisione della propria interpretazione di sé che condurrebbe ad uno svuotamento immediatamente autodistruttivo. Il punto allore non è “cosa” e “come”, ma “se”, in un meccanuismo di “tutto o nulla” che porta ad estenuanti giri ripetitivi intorno a medesimi argomenti.

Cionondimeno, questi pazienti sono dotati tutti di una certa intelligenza e — come detto — le loro capacità introspettive sono inutilizzate ma non assenti di per sé. Dopo un lungo periodo di preparazione e di sostegno, la psicoterapia diventa in alcuni casi rapidamente fruttuosa producendo effetti in tempi relativamente brevi.

La terapia è dispendiosa in termini di risorse per la struttura o in termini economici per il paziente che non trovasse spazio nel servizio pubblico. Vista la crescente domanda, urge domandarsi se sia ipotizzabile una prevenzione.

Essa potrebbe esercitarsi su diversi livelli.

Rispetto al singolo caso, una più stretta collaborazione fra neuropsichiatria infantile e psichiatria adulti potrebbe identificare fattori di rischio specifici nel bambino, nell’adolescente, nel nucleo familiare. Va inoltre sottolineato che questi pazienti tendono a ripetere i modelli patogeni subiti nell’infanzia nei confronti dei figli piccoli, quando ce ne sono.

Il coinvolgimento delle discipline formative e pedagogiche potrebbe porre in essere una fruttuosa riflessione complessiva sul problema dello sviluppo della persona nella società contemporanea e potrebbe fornire alla scuola strumenti quanto meno di compenso alle carenze sempre più strutturali della famiglia nucleare.

Infine, il mondo della psichiatria potrebbe intrattenere un più responsabile rapporto con le altre aree della società civile, ricoprendo il ruolo intellettuale che ha il dovere etico di ricoprire, smettendo di lanciare facili anatemi e snocciolare direttive di comportamento, stimolando piuttosto il confronto laddove ritenga si annidino potenzialità patogene travestite da normalità. Ciò richiederebbe forse la rinuncia alla spettacolarizzazione della propria disciplina, divenuta nell’immaginario collettivo una specie di oracolo televisivo fornitore di filosofie di vita pronte all’uso e di sagaci interpretazioni dei misteri del comportamento, sapido alimento invece di questi processi morbosi.

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