C’è un problema diffuso di interpretazione del disagio mentale e, a seguire, anche del senso del trattamento psichiatrico o psicoterapeutico. In nessun campo della medicina il concetto — già di per sé ambiguo — di salute è sfuggente come lo è in psichiatria. Forse è per questo che si sente la necessità di una demarcazione forte, come se l’idea stessa del disagio psichico possa in qualche modo contagiarci. Ciò che più ci protegge dalla «stranezza» dell’altro è sapere che in realtà, sotto sotto, non è veramente come noi. Possiamo così avvicinarci — anche moltissimo — ma è come se si rimanesse dall’altra parte di un vetro. Un po’ come allo zoo. Se la demarcazione si fa incerta, le cose invece si complicano moltissimo.
In realtà, il discorso vale anche a parti invertite, almeno per la sfera nevrotica. Chi non sta bene cerca spesso l’etichetta che lo definisca, che gli dia una patente di malattia, lo giustifichi rispetto alle proprie inadeguatezze e lo rassicuri sulla disponibilità direi «algoritmica» di una procedura terapeutica. Si mette, per dire, in una gabbia comoda (e ci sarebbe molto da riflettere su una società in cui bisogna sentirsi matti per sentirsi giustificati).
Rimanere invece in quella zona grigia, indefinita, in cui non conta tanto la malattia quanto la persona (le sue scelte, la sua libertà, il suo destino, la sua felicità), è terribilmente faticoso sia per chi sta al di qua sia per chi sta al di là di questa demarcazione artificiale.
E qui si manifesta il primo fraintendimento: per quanto la terapia possa prevedere colloqui, pillole, ricoveri e trattamenti più o meno coatti e per quanto l’indice della sua evoluzione sia rappresentato dai suoi sintomi, lo scopo reale dello psichiatra non è, come può sembrare, quello di curare la malattia. (altro…)