Quando l’io diventa sovrano

29 Giugno 2019Articoli, 🇮🇹 Italiano

Il dibattito intorno ad alcuni temi si è fatto recentemente molto acceso. Le posizioni tradizionali — Dio e Cesare, diritti e doveri, conservatori e progressisti — si trovano sempre più polarizzate l’una contro l’altra. Il conflitto si radicalizza e soffoca gli spazi di dialogo. Che i conflitti possano estremizzarsi non deve certo sorprendere; leggendo la contemporaneità secondo le categorie consuete rischiamo però di trascurare alcuni elementi nuovi.

Da un lato sono venute meno le grandi impalcature ideologiche che davano una forma coesa, orientata, condivisa anche al disagio sociale e al dissenso. Dall’altro, l’influenza dei nuovi media ha dato al singolo individuo uno straordinario (ma totalmente deresponsabilizzato) strumento di amplificazione della propria voce. Oggi si può interloquire (o, meglio, sentire di star interloquendo) direttamente con alti funzionari, celebrità, personalità di ogni genere. Ogni tweet, ogni status, ogni post, in virtù di una possibile viralità, assurge alla dimensione fantastica di un annuncio Urbi et Orbi.

In questo panorama sembra emergere una sorta di insurrezione in tre grandi aree: l’area della politica, ovvero il mondo del fare; l’area della scienza, ovvero il mondo del sapere; l’area della religione, ovvero il mondo del credere. Le popolazioni di queste tre aree di dissenso — non è un caso — presentano larghe sovrapposizioni.

I punti di riferimento di una volta (il rappresentante delle istituzioni, lo scienziato, lo stesso Pontefice) vengono aggrediti con sorprendente virulenza; non già per ciò che sostengono, bensì per ciò che rappresentano: l’esistenza stessa di un’autorevolezza, di un’istanza altra che pone limiti all’espansione sempre più autoreferenziale di un “io” individuale. La cifra inquietante di questo conflitto non è quindi la sua intensità né ha a che fare con le posizioni sostenute. La dialettica non è più fra due collettività: è piuttosto fra l’individuale e il collettivo. (altro…)

Scienza e religione

19 Giugno 2019Twitter threads, 🇮🇹 Italiano

La fede attiene al campo del senso, non della conoscenza delle cause e degli effetti. La conoscenza di fede, se è di fede, non è scientifica – e viceversa. Il meccanismo del credere è solo apparentemente logico-razionale: noi non crediamo a ciò che riteniamo logico, ma a ciò che ci sembra vero (da un punto di vista sensopercettivo) o giusto (da un punto di vista conflittuale). Esempio: il delirio paranoicale è assolutamente logico, verosimile, credibile, formalmente corretto – ma è falso.

La fiducia nella scienza richiede uno sforzo ulteriore rispetto a questo limite. Se la logica fosse veramente la stessa per tutti, tutti saremmo sempre d’accordo su tutto. È facile piegare l’interpretazione delle evidenze per far quadrare una teoria che “ci piace”. Sono il dibattito scientifico, la verifica e l’esposizione alla critica che garantiscono, non la presupposta logicità del procedimento.

Chi cerca di dimostrare la non ragionevolezza della fede (vedi Odifreddi) spesso lo fa con argomentazioni logiche terribilmente fallaci. Innanzitutto perché non comprendono il campo al quale vogliono applicarsi. Per esempio che la fede è irragionevole. Altrettanto vano è il tentativo di dimostrare logicamente la validità della religione, della fede o l’esistenza di Dio (non funzionava per Sant’Anselmo, non funziona nemmeno oggi).

Quanto alla mia esperienza (di persona che lavora proprio con le capacità associative dei pazienti) posso garantire che le capacità associative di credenti e non sono del tutto sovrapponibili: gli stupidi restano stupidi, gli intelligenti intelligenti. Questo non determina la superiorità intellettuale o antropologica di nessuno, né ateo né credente. Sono due atteggiamenti diversi e il problema sorge quando si mescolano in modo improprio: ovvero quando gli scienziati aderiscono fideisticamente a un’idea o quando i credenti vivono una fede intellettuale (entrambe le cose capitano spessissimo).


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La persona più della malattia

7 Giugno 2019Articoli, 🇮🇹 Italiano

C’è un problema diffuso di interpretazione del disagio mentale e, a seguire, anche del senso del trattamento psichiatrico o psicoterapeutico. In nessun campo della medicina il concetto — già di per sé ambiguo — di salute è sfuggente come lo è in psichiatria. Forse è per questo che si sente la necessità di una demarcazione forte, come se l’idea stessa del disagio psichico possa in qualche modo contagiarci. Ciò che più ci protegge dalla «stranezza» dell’altro è sapere che in realtà, sotto sotto, non è veramente come noi. Possiamo così avvicinarci — anche moltissimo — ma è come se si rimanesse dall’altra parte di un vetro. Un po’ come allo zoo. Se la demarcazione si fa incerta, le cose invece si complicano moltissimo.

In realtà, il discorso vale anche a parti invertite, almeno per la sfera nevrotica. Chi non sta bene cerca spesso l’etichetta che lo definisca, che gli dia una patente di malattia, lo giustifichi rispetto alle proprie inadeguatezze e lo rassicuri sulla disponibilità direi «algoritmica» di una procedura terapeutica. Si mette, per dire, in una gabbia comoda (e ci sarebbe molto da riflettere su una società in cui bisogna sentirsi matti per sentirsi giustificati).

Rimanere invece in quella zona grigia, indefinita, in cui non conta tanto la malattia quanto la persona (le sue scelte, la sua libertà, il suo destino, la sua felicità), è terribilmente faticoso sia per chi sta al di qua sia per chi sta al di là di questa demarcazione artificiale.

E qui si manifesta il primo fraintendimento: per quanto la terapia possa prevedere colloqui, pillole, ricoveri e trattamenti più o meno coatti e per quanto l’indice della sua evoluzione sia rappresentato dai suoi sintomi, lo scopo reale dello psichiatra non è, come può sembrare, quello di curare la malattia. (altro…)