Come (e se) scegliere un terapeuta

28 Luglio 2020Twitter threads, 🇮🇹 Italiano

Se state male cercate aiuto. Forse non è il momento, forse non siete alla frutta, forse ce la fate da soli. Ok. Ma non escludetelo dal vostro orizzonte: se arriverà il momento sarete preparati. E no, l’amico che vi ascolta ogni sera non è un’alternativa valida a una terapia.

  1. Cercate la persona giusta: non guardate il blasone, non cercate il luminare, non date troppa retta all’orientamento, non mettete preclusioni pregiudiziali.
  2. Quel che conta è il colloquio: vi sentite in buone mani? Avete fiducia? Vi sentite ascoltati? Ok. No? cambiate aria. La cura, al di là della pillola, dell’approccio, della cornice teorica, avviene sempre attraverso la relazione.
  3. La persona giusta per voi potrebbe non essere la persona giusta per un altro. E viceversa. Perdete tempo all’inizio, fate più di un colloquio se non siete convinti. Meglio perdere un mese all’inizio che fare un anno di terapia buttato al vento.
  4. Avete cominciato, ma qualcosa non vi convince. Ditelo al vostro terapeuta: è tutto materiale di lavoro. Ditegli che vi sta sul cazzo, che non lo sopportate quando sbadiglia, che non lo capite, che sentite che non state andando da nessuna parte. Se è un bravo terapeuta, saprà cosa rispondervi. Se si offende, forse non lo è.
  5. Abbiate anche pazienza, però: a volte si peggiora prima di migliorare. A volte le cose escono fuori tutte insieme, a volte per un anno sembra che non succeda nulla. Invece succede. Nessuna seduta è uguale alla precedente, anche se dite esattamente le stesse cose. E come i problemi dei matrimoni si affrontano nel matrimonio, i problemi della terapia si affrontano in terapia.
  6. Nulla di quel che pensate è banale, nulla è noioso. Dite tutto quello che vi passa per la testa. Se pensate sia banale, forse è MOLTO importante. Nella mia esperienza, la forma di censura più frequente non è ciò che imbarazza ma ciò che si ritiene “inutile da dire”.
  7. Internet dice solo cazzate. Se dite al vostro analista “ho letto su Internet che…” e lui prende un grosso bastone nodoso, ha ragione. Idem (per lo più) la TV. La credibilità di un terapeuta è inversamente proporzionale alla sua voglia di apparire in TV.
  8. La psichiatria è un mondo di incertezze. Non cercate l’etichetta, non vi fissate sulla diagnosi. La fobia è uguale per tutti, ma ogni persona fobica è diversa dall’altra e si cura la persona, non la fobia.
  9. Bruciate i bugiardini. Se avete dubbi, chiedete al medico. E dite TUTTO quello che state prendendo e TUTTI i disturbi somatici che avete, in particolare se riguardano prostata, occhi, apparati digerente, cardiocircolatorio e respiratorio.
  10. Chiedere la ricevuta non è un crimine… Veramente non ci sarebbe bisogno nemmeno di chiedere…
  11. Se non avete soldi, rivolgetevi al DSM di zona; se avete un’università nei dintorni, probabilmente c’è anche un ambulatorio pubblico universitario extraterritoriale (non legato quindi alla zona di residenza). Possono essere soluzioni ragionevoli.
  12. Molte scuole psicoanalitiche hanno anche dei centri di ascolto e smistamento con parcelle calmierate: i terapeuti spesso sono giovani ma non per questo la qualità del loro lavoro è inferiore (anzi, spesso sono in supervisione quindi doppia sicurezza). Ecco i siti delle principali scuole di psicologia analitica e psicoanalisi italiane: AIPACIPASPI

E se volete farvi due risate, pare sia tornato disponibile l’esilarante “Come scegliere il vostro psicoanalista” di Salvatore dell’Io (Cortina 1996).

Un gioiellino.


→ Thread originale

La persona più della malattia

7 Giugno 2019Articoli, 🇮🇹 Italiano

C’è un problema diffuso di interpretazione del disagio mentale e, a seguire, anche del senso del trattamento psichiatrico o psicoterapeutico. In nessun campo della medicina il concetto — già di per sé ambiguo — di salute è sfuggente come lo è in psichiatria. Forse è per questo che si sente la necessità di una demarcazione forte, come se l’idea stessa del disagio psichico possa in qualche modo contagiarci. Ciò che più ci protegge dalla «stranezza» dell’altro è sapere che in realtà, sotto sotto, non è veramente come noi. Possiamo così avvicinarci — anche moltissimo — ma è come se si rimanesse dall’altra parte di un vetro. Un po’ come allo zoo. Se la demarcazione si fa incerta, le cose invece si complicano moltissimo.

In realtà, il discorso vale anche a parti invertite, almeno per la sfera nevrotica. Chi non sta bene cerca spesso l’etichetta che lo definisca, che gli dia una patente di malattia, lo giustifichi rispetto alle proprie inadeguatezze e lo rassicuri sulla disponibilità direi «algoritmica» di una procedura terapeutica. Si mette, per dire, in una gabbia comoda (e ci sarebbe molto da riflettere su una società in cui bisogna sentirsi matti per sentirsi giustificati).

Rimanere invece in quella zona grigia, indefinita, in cui non conta tanto la malattia quanto la persona (le sue scelte, la sua libertà, il suo destino, la sua felicità), è terribilmente faticoso sia per chi sta al di qua sia per chi sta al di là di questa demarcazione artificiale.

E qui si manifesta il primo fraintendimento: per quanto la terapia possa prevedere colloqui, pillole, ricoveri e trattamenti più o meno coatti e per quanto l’indice della sua evoluzione sia rappresentato dai suoi sintomi, lo scopo reale dello psichiatra non è, come può sembrare, quello di curare la malattia. (altro…)