Un video “fuori programma” per rispondere a una discussione nata su Twitter: può una persona affetta da un grave disturbo nevrotico ricoprire incarichi di responsabilità?
Cosa vuol dire veramente essere “sani” o “nevrotici”?
Un video “fuori programma” per rispondere a una discussione nata su Twitter: può una persona affetta da un grave disturbo nevrotico ricoprire incarichi di responsabilità?
Cosa vuol dire veramente essere “sani” o “nevrotici”?
Vedo molto parlare di effetti psicologici di questo o di quello. Bene. Però le soluzioni sembrano orientate all’eliminazione delle fonti di “stress”. Allora ho fatto un disegnino (molto grossolano).
A seconda del sistema di riferimento personale, familiare, culturale, sociale etc., tecnicamente ogni evento (esterno o interno) può essere uno “stressor”. O non esserlo.
Se certi eventi lo sono quasi universalmente (es., un lutto), per altri conta la risonanza che diamo loro.
Per evitare effetti dannosi per la salute mentale, forse non occorre tanto l’eliminazione di ogni cosa che ci crei ansia, quanto un’educazione che ci consenta di discernere in maniera più congrua ciò che “ci fa male” e di affrontarlo in maniera meno ansiosa e più costruttiva (ne avevo parlato tempo fa qui).
Parliamo di Covid e Salute Mentale (visto che se ne parla molto, ma se ne dice, in realtà, poco). Come sempre con le inevitabili approssimazioni di un thread su Twitter.
Mi riferisco qui alle implicazioni su larga scala: non quindi agli effetti diretti del Covid sul SNC ma solo a quelli indiretti dovuti alle situazioni quotidiane, sociali, psicologiche, antropologiche, mediatiche cui siamo tutti più o meno sottoposti.
È difficile avere numeri esatti (anche se qualcosa arriva), ma ci interessa poco la contabilità: la generale percezione è che la pandemia abbia aumentato il “bilancio netto”, per dirla brutalmente, di molte manifestazioni psicopatologiche (nota a margine: parlo di “bilancio netto” perché l’isolamento sociale, il telelavoro etc. hanno prodotto in un numero rilevante di persone una condizione di maggiore benessere, il che dovrebbe farci anche riflettere – ma è altro tema e non divago).
Annosa questione è la mancanza di risorse per la psichiatria territoriale: in termini economici, di personale, ma soprattutto di tipologia di risposta, essendo la psicoterapia gravemente sottorappresentata rispetto alle attuali necessità. Questo ragionamento, seppur corretto, lavora però su un piano di intervento terapeutico, mentre il termine forse un po’ desueto di “Igiene Mentale” prevede come non meno importanti gli aspetti di prevenzione (non solo secondaria e terziaria: anche primaria).
Prevenzione “primaria” vuol dire lavorare su un ambiente per eliminare i fattori di rischio prima che essi possano incidere sullo sviluppo di una malattia (molto sinteticamente: quella secondaria è la diagnosi precoce e quella terziaria è la riabilitazione).
Ora, mentre per le altre due si lavora su un individuo, per la prima si lavora su un ambiente e in assenza di una malattia. È un lavoro di previsione, un gioco di anticipo.
In medicina generale gli effetti sono misurabili (es: lotta al fumo → cancro al polmone). In psichiatria invece tutto è più fumoso, soprattutto quando dalla sfera francamente patologica ci spostiamo verso quella psicopatologia della vita quotidiana di stampo più nevrotico che riguarda molta più gente e che ha costi sociali elevati ma sommersi.
Il che ci porta a domandarci: come intervenire psichiatricamente, allora?
(altro…)“C’è del metodo in questa follia”, mormora fra sé uno sconcertato Polonio di fronte ai bizzarri ragionamenti di Amleto. È dunque pazzo il giovane Principe di Danimarca? Tutti a corte se lo chiedono – e la considerazione di Polonio non è di alcun aiuto.
In verità, lungo la tragedia il confine tra salute e follia viene scavalcato di continuo: Amleto simula con Polonio, ma nella Scena II del primo Atto così aveva risposto alla madre che lo incoraggiava a scrollarsi di dosso il malumore (elargendo ciò che da più parti è stato modernamente definito un eccellente ritratto della depressione):
Sembra, signora? No, non sembra, è; io non conosco “sembra”. Non è soltanto il mantello d’inchiostro, buona madre, né il mio vestir consueto, sempre così solennemente nero, né il sospirar violento del mio petto, né il copioso fluire dei miei occhi, né l’aspetto contratto del mio volto con gli altri segni e mostre del dolore, ad esprimere il vero di me stesso. Di tutto questo si può dir che “sembra”, perché questi son tutti atteggiamenti che ciascuno potrebbe recitare. Ma quel che ho dentro va oltre la mostra… queste esteriori son tutte gualdrappe, e livree del dolore, nulla più.
La sua ricerca di giustizia è lucida, ma i sentimenti che lo attraversano sono il lutto, lo sconcerto, il risentimento, la disperazione, la furia: una emotività in subbuglio che è facile sottostimare se ci si ferma al semplice gioco vero/falso nel quale sono, del resto, intrappolati gli altri personaggi.
Amleto, folle di rabbia, lucidamente simula la propria follia per dire ciò che non può dire altrimenti (e per costringere gli altri a fare lo stesso). E dove non arriva la comunicazione sghemba della vera o presunta follia, ecco il teatro a riempire lo spazio:
(altro…)Devo far recitar da questi attori qualcosa che, in presenza di mio zio, richiami l’assassinio di mio padre. Starò poi a spiar la sua reazione. Lo voglio scandagliare fino in fondo. Se appena accenna a un minimo sussulto, so quel che fare.