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Colpa, vergogna, struttura sociale

Nelle storie dei nostri pazienti esistono altri due aspetti che non ho ancora nominato, ma che appaiono fortemente problematici: la colpa e la vergogna. Questi due vissuti vengono fortemente negati ed evitati, e di rado appaiono esplicitamente nel colloquio psicoterapeutico nonostante se ne percepiscano di continuo gli echi.

Non approfondirò in questa sede le interpretazioni analitiche, che richiederebbero uno spazio congruo. Mi sembra invece interessante riflettere sulle risonanze sociali e culturali che attraversano lo spazio antropologico in cui compare la psicopatologia qui descritta. In ciò, ovviamente, sposto l’attenzione dalla dinamica intrapsichica a quella collettiva, cui attribuisco un ruolo maggiore a quello di semplice spettatore.

Per affrontare questo argomento, possiamo partire da molto lontano, anzi, quasi dall’inzio:

O Padre Zeus, come sono grandi le àtai che tu assegni agli uomini. Altrimenti non avrebbe mai l’Atride commosso fino in fondo il thumòs nel mio petto, e non avrebbe menato via, inflessibile, la fanciulla a mio dispetto.1

E altrove:

Ebbene, giacché fui accecato dall’ate e Zeus mi tolse il senno, voglio ora rifare la pace e offrire doni immensi.2

L’Ate, insufflata da Zeus nel θυμός di Agamennone, lo conduce ad azioni scellerate; ma è ate anche l’avventatezza di Agàstrofo3 – sorpreso in battaglia lontano dai propri cavalli – o la dissennata decisione di Automèdonte4 di agitare la lancia contro il nemico mentre conduce da solo il carro da guerra. Tutte queste azioni sono sconsiderate e prodotte εἰς ἄταν.

Dodds definisce il complesso concetto di Ate come un errore inesplicabile, originato da Zeus, dalle Erinni o dalla moira (non personificata), talora dall’alcool, contrapposta in una certa misura al μένος (che spinge invece ad imprese eroiche) con cui però condivide l’origine extrapsichica e, quindi, divina. Agamennone non se ne sente direttamente responsabile (“fui accecato dall’ate e Zeus mi tolse il senno”), ma decide comunque di “offrire doni immensi”: l’ate non implica la responsabilità morale né giunge come punizione per una colpa pregressa, cionondimeno chi ne è colto se ne vergogna e accetta la pena conseguente. Benché l’idea di una pena che così naturalmente consegua ad un’azione rovinosa ma senza colpa, sembri stravagante all’osservatore moderno, essa riflette in modo esemplare la mentalità dell’uomo omerico e la sua concezione della vita psichica. Ciò che qui ci interessa è la trasformazione (e le sue implicazioni) del significato di ate dal periodo omerico a quello arcaico.

Dobbiamo innanzitutto tener presente che la personificazione divina delle componenti extracoscienti della psiche (ate, μένος, etc., ma anche semplicemente ciò che “viene in mente” al di fuori del pensiero logico concatenato) è ben più di un semplice espediente letterario. Nel mondo omerico,

quando un uomo agisce in modo contrario a quel sistema di disposizioni coscienti che, si dice, egli conosce5 il suo atto non è propriamente suo, gli è stato imposto.

(…)

Evidentemente, è più probabile che questo avvenga, quando le azioni sono fonte di acuta vergogna per chi le compie.6

L’ate dà dunque ragione di un comportamento di cui l’individuo non è colpevole, perché esso ha origine extracosciente (irrilevante a questo punto se divina o inconscia, visto che per l’uomo omerico non v’è distinzione), ma che lo espone ad una profonda ed altrimenti insostenibile vergogna. Le mancanze morali frutto di ate sono quindi sullo stesso piano di altre azioni erronee ed inspiegabili che non implicano una colpa (l’imprudenza di Agàstrofo, ad esempio) e producono la medesima perdita di pubblica stima (τιμή), ciò che è ad esempio nella società giapponese contemporanea il “perdere la faccia”; del resto, questa giustificazione non lo sottrae alla pena perché la giustizia omerica non si preoccupa dell’intenzione, ma solo dell’azione.

L’uomo omerico è infatti un insieme situazionale di funzioni: è di volta in volta un piede veloce, uno sguardo profondo, membra agili e articolate (γυῖα) o potenti e muscolose (μέλεα); la sua anima è una ψυχή che spira dal corpo morente, un θυμός che sospinge all’azione e si commuove, un νόος che ospita l’intelletto. I suoi complessi – diremmo oggi – ideoaffettivi si animano in una girandola di divinità e personificazioni che gli appaiono e lo ispirano; il più delle volte, a conferma del loro carattere privato ed intimo, queste manifestazioni sono invisibili a terzi.

Pur mancandogli una rappresentazione unitaria del corpo o della mente, l’uomo omerico reperisce i confini di sé in una concezione “intellettualistica” dell’esperienza secondo la quale si è ciò che si sa (come dimostra l’uso di οἶδα) e, di conseguenza, non si è ciò che non si sa (lo avrebbe ripreso più tardi Socrate, sostenendo che “la virtù è conoscenza”). Ecco dunque inevitabile la proiezione dei contenuti psichici extracoscienti in una personificazione divina. Scrive Snell:

È ignoto a Omero il vero e proprio atto della decisione umana

(…)

La credenza in quest’azione del divino è dunque un complemento necessario alle rappresentazioni omeriche dello spirito e dell’anima umana.7

Nel passaggio alla lirica le cose cambiano radicalmente. Si domanda a questo proposito sempre Snell8:

Esiste una relazione fra il cinico piacere di distruggere ogni illusione proprio in Archiloco, l’arguzia di Anacreonte e l’interiorità di Saffo?

Ebbene, esiste e consiste innanzitutto nel fatto che di tutti loro conosciamo l’identità. Per il gusto di un confronto immediatamente esemplare, si pensi già solo all’ineffabile e controversa identità di Omero. Ancora Snell spiega in un altro passo:

La differenza più notevole fra l’antica epica greca e la lirica che da essa deriva sta (…) nel fatto che nella lirica i poeti ci fanno conoscere per la prima volta la loro individualità.9

Essa infatti traspare e diventa tema stesso dell’opera, ribadendo così l’esistenza e l’identità storica dell’autore. Archiloco e Saffo, individui ed individualisti (ed “individuati”, aggiungeremmo), esprimono il loro personale parere in contrasto con la norma vigente e senza nemmeno bisogno di appellarsi al diritto o alla morale

“La cosa più bella è quella che mi piace”.10

Questo processo è molto graduale e si accompagna ad altri determinanti mutamenti. Man mano che si struttura il concetto di colpa, l’ate diventa sempre più un “castigo”: Zeus, che già nell’Odissea viene associato alla giustizia, ne diventa durante il periodo arcaico personificazione più o meno diretta: le Erinni sono i suoi magistrati e l’ate è la punizione per chi si sia macchiato del kòros (il compiacimento per il proprio successo) e della relativa ὕβρις, il “primo dei mali” (πρῶτον κακῶν). L’uomo greco, indifferente e addirittura beffardo di fronte ai dardi del fato durante il periodo omerico, si dispera invece in quello arcaico per la propria ἀμηχανία (impotenza) nei confronti di divinità gelose (φθονερόν) e vendicative, che sovradeterminano la storia e ne regolano gli avvenimenti a dispetto degli umani propositi. Si tratta di una implicazione dell’incipiente interiorizzazione della coscienza, che comporta una graduale e drammatica ristrutturazione dei rapporti fra psiche, individuo, Io e morale. L’uomo diventa responsabile dei propri atti e l’intervento divino ripara la colpa con un’opportuna punizione: quest’ultima, quando non colpisce il soggetto in vita, lo raggiungerà in una dimensione ultraterrena o più probabilmente nella sua “innocente” discendenza (gli ἀναίτιοι) per μίασμα (contaminazione). Ecco un altro elemento che agli occhi del contemporaneo può sembrare profondamente ingiusto e che invece è naturale nel mondo greco, in cui è proprio il tenacissimo radicamento nella famiglia a contrapporsi allo sviluppo del principio di responsabilità personale.

La famiglia

Proprio il ruolo della famiglia, per Dodds, è la chiave di volta di questa trasformazione. La solidarietà familiare è infatti la base della coesione sociale: il padre è οἴκοιο ἄναξ e gode di autorità illimitata, mentre i figli hanno nei suoi confronti solo doveri e nessun diritto. Questo principio resta valido in linea di massima ben oltre il periodo epico, tanto che Platone in più opere ne sottolinea l’intangibilità

E infatti la maledizione dei padri sui figli è la più terribile di ogni altra su ogni altro, ed è giustissimo.11

e anche:

Chiunque mai oserà levar la mano sul padre, la madre, o anche sui progenitori che li precedono, chi userà contro di loro violenza e maltrattamenti, senza temer l’ira degli dèi del cielo (…), costui ha bisogno di qualche mezzo estremo che lo distolga dal delitto.12

Il primigenio confronto cruento fra Crono e Zeus (frutto secondo Dodds di una misteriosa contaminazione ittita, trapiantata pressoché intatta nella cultura greca) non è un racconto per tutte le orecchie:

Quanto poi a quello che fece Crono e a quello che patì da parte del figlio, secondo me non sono cose da raccontare così alla leggera a persone senza giudizio e giovani, neppure se sono vere. Si deve invece gelosamente tacerle.13

Ma la gravità del precetto è tale da far pensare che l’inattaccabile autorità del pater familias già dal periodo arcaico non sia più così intangibile; l’imposizione etica coattiva e reazionaria, tale da prevedere addirittura punizioni esemplari, si rafforza in compenso al concomitante scemare della direttiva morale.

È l’esito di un processo complesso e articolato, cui partecipano la nascita della responsabilità personale, lo sviluppo del concetto di colpa e la sua sostituzione al principio della vergogna nell’orizzonte morale, l’interiorizzazione della coscienza, l’emersione e l’affermazione dell’identità individuale.

Dapprima, la direttiva morale è un inappellabile rispetto per l’autorità paterna (“farai questo perché lo dico io”): per restare nell’ambito della giustizia basta obbedire e preservarsi da comportamenti volontari o involontari che facciano perdere la pubblica stima. In un secondo momento, il riferimento è ad un’istanza superiore (“farai questo perché è giusto”) e ad un complesso di norme universali cui ogni individuo (anche il padre) è sottoposto e di cui ciascuno è il primo giudice. A questo punto, la direttiva paterna (o divina) – nel caso non corrisponda ad un ideale di giustizia – diventa drammaticamente opinabile. La ὕβρις è quindi innanzitutto una metafora dell’insolenza nei confronti dell’autorità paterna, anche laddove (e, aggiungiamo, proprio perché) essa sia semplice espressione di identità.

Con il movimento sofistico, scrive Dodds,

il conflitto, in molte famiglie, divenne completamente cosciente: i giovani cominciarono a difendere il proprio «diritto naturale» di disobbedire ai padri.14

Civiltà di vergogna, civiltà di colpa

Nella propria analisi delle trasformazioni sociali e culturali tra il periodo omerico e quello arcaico, Dodds fa riferimento ad una coppia di concetti già nota agli antropologi:

Dico vergogna, non colpa, perché alcuni antropologi americani ci hanno recentemente insegnato a distinguere le «civiltà di vergogna» dalle «civiltà di colpa», e la società descritta da Omero è sicuramente una civiltà di vergogna.15

Il riferimento è al classico testo di Ruth Benedict “Il crisantemo e la spada”, pubblicato nel 1946 per descrivere la società giapponese16. La seconda guerra mondiale aveva portato alla luce in maniera drammatica l’incapacità occidentale (statunitense, nella fattispecie) di conoscere e capire un avversario tanto diverso dai propri modelli culturali e comportamentali. 

In sintesi, gli antropologi, ricorda Eva Cantarella17,

definiscono shame culture, o «cultura di vergogna», quella in cui l’adeguamento alle regole non è ottenuto attraverso l’imposizione di divieti, ma attraverso la proposizione di modelli positivi di comportamento: e nella quale coloro che non si adeguano ai modelli incorrono nel biasimo sociale, e in una conseguente sensazione di «vergogna». Per guilt culture, o «cultura di colpa», invece, intendono una società in cui i comportamenti vengono determinati attraverso l’imposizione di divieti, e in cui chi tiene un comportamento vietato si sente oppresso da un senso misto di angoscia, di colpa e di rimorso.

Il doppio paradigma (vergogna-colpa) è stato successivamente applicato in modo piuttosto rigido in diversi ambiti, attribuendo allo stesso Dodds una radicalità che non aveva; egli, al contrario, scrive chiaramente che non è possibile separare le due modalità in modo netto, sì da contrapporre due schemi sociali distinti ed alternativi. Ciò è tanto più vero quanto più si ha a che fare con una cultura complessa, e senza dubbio possiamo riconoscere questa complessità nella cultura greca omerica ed arcaica, in quella giapponese contemporanea e nella nostra cultura attuale.

Nel determinare se la nostra cultura sia di colpa o di vergogna, le interpretazioni sono meno univoche di come si potrebbe immaginare:

Per taluni autori, se l’Occidente è l’erede di una civiltà della colpevolezza un tempo potente, questa stessa civiltà sarebbe ormai in declino e si appresterebbe a far posto ad una civiltà della vergogna.18

C’è da domandarsi se non stiamo assistendo ad un passaggio altrettanto drammatico di quello descritto da Dodds: vi corrispondono del resto trasformazioni radicali proprio nell’elemento che Dodds ritiene cardinale in questo passaggio: la famiglia.

La domanda, a questo punto dovrebbe piuttosto essere – nel superamento del troppo rigido paradigma antinomico vergogna-colpa – stiamo assistendo alla strutturazione di una società di responsabilità?

La malattia della responsabilità

Ben spiega tutto ciò Ehrenberg19:

È proprio il sisma dell’emancipazione ad aver sconvolto, a livello collettivo, l’intimità di ciascuno di noi: la modernità democratica – e questa è anche la sua grandezza – ha fatto progressivamente di noi degli uomini senza guida, ci ha posti a poco a poco nella condizione di dover giudicare da soli e di dover fondare da soli i nostri punti di riferimento. Siamo divenuti puri individui, nel senso che non vi è più alcuna legge morale né alcuna tradizione a indicarci dall’esterno chi dobbiamo essere e come dobbiamo comportarci. Da questo punto di vista, la contrapposizione permesso/vietato, che regolava l’individualità fino a tutti gli anni ’50 e ’60, ha perduto ogni efficacia.

(…)

La depressione ci illumina sulla nostra attuale esperienza della persona, poiché essa è la patologia di una società in cui la norma non è più fondata sulla colpa e la disciplina, bensì sulla responsabilità e l’iniziativa. In passato, le regole sociali imponevano il conformismo e, con esso, l’automatismo dei comportamenti; oggi, esse reclamano lo spirito d’iniziativa e l’intraprendenza mentale. L’individuo è messo a confronto più con una patologia dell’insufficienza che con una malattia della colpa, più con l’universo della disfunzione che con quello della legge: il depresso è l’uomo in panne.

(…)

Spossati e svuotati, agitati e violenti, in una parola, malati di nervi, scontiamo dentro i nostri stessi corpi il peso della sovranità individuale.

Ehrenberg interpreta la depressione come “malattia della responsabilità”, ovvero come crollo su se stessi in seguito a questo processo di individualizzazione estrema. Come ho scritto altrove:

L’uomo descritto da Ehrenberg non ha che la depressione per sottrarsi allo scacco di una società che premia la piena realizzazione dell’individuo, destinando ogni alternativa ad una condanna di insufficienza.

(…)

Essa si trasforma nel corso di un secolo – il secolo, non a caso, della psicoanalisi – da malattia endogena ad espressione indifferenziata del disagio psichico. L’uomo del ventesimo secolo (e quello del ventunesimo sembra condividerne il destino) è “l’individuo sovrano, l’individuo eguale soltanto a se stesso” (F. Nietzsche), l’individuo posto liberamente di fronte alla molteplicità delle proprie prospettive esistenziali; questa possibilità, dapprima “kierkegaardiana”, diventa però sempre più “sartriana” fino a tramutarsi nell’imprescindibile – e angosciante – esigenza di realizzare pienamente e responsabilmente se stessi.

Ehrenberg approfondisce le motivazioni che rendono la fenomenica depressiva trionfante sulle altre manifestazioni cliniche, circoscrivendo – senza mai violare – il campo ambiguo dell’identità. Sembra infatti essere proprio l’identità il discreto regista nascosto dietro questi movimenti, che si perde e si cerca nella rincorsa all’espressione di sé.

Se la realizzazione di sé (e del Sé) è l’obiettivo fallito, la depressione rappresenta la maschera di uno spaesamento che si produce a partire da un fallito presupposto: l’assenza di un soggetto.

A questa evenienza corrisponde paradossalmente un progressivo nichilsmo nosografico, in base al quale sintomo e malattia tendono sempre più ad identificarsi, affiancando alla sparizione del soggetto – che è soggetto di malattia – quella dell’ente nosologico in sé, rappresentato oggi solo dalla sua forma. Ne consegue uno svuotamento del senso clinico del sintomo, che, proprio alla luce di un secolo di psicoanalisi, dovrebbe essere invece affrontato in tutta la sua complessità.20

Potremmo considerare la nostra sindrome vetero-adolescenziale – anziché come crollo – come mancato sviluppo, in relazione alle stesse dinamiche.

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  1. Iliade, XIX, 270 e sgg.
  2. Iliade, XIX, 137 e sgg.
  3. Ibid., XI, 340 e sgg.
  4. Ibid., XVII, 469 e sgg.
  5. Nel senso di οἶδα.
  6. Dodds, 1978, p. 29.
  7. Snell, 1963, p. 44.
  8. Snell, ibid., p. 96.
  9. Snell, ibid., p. 89.
  10. Snell, ibid., p. 96.
  11. Platone, Leggi, XI, 931C.
  12. Platone Leggi, IX, 880E.
  13. Platone, Repubblica, II, 338A.
  14. Dodds, ibid., p. 68 sgg.
  15. Dodds, ibid., p. 29.
  16. Benedict, 1993.
  17. Cantarella, 2002, p. 32.
  18. Goldberg, 1988, p. 177.
  19. Ehrenberg, 1999, p. 8 sgg.
  20. Gaston C. M., 2001, ibid.