Come mai di fronte a un abuso plateale, netto, privo di sfumature, c’è da parte di alcuni una corsa ai distinguo, se non un vero e proprio fiancheggiamento dell’aggressore? La risposta è piuttosto articolata per cui cercherò di schematizzare molto.

La condizione esistenziale della “vittima” è quella di non avere il potere di venire a patti. È una condizione psicologicamente angosciante ben oltre gli effetti concreti dell’abuso perché ci mette di fronte alla possibilità dell’impotenza.

L’impotenza non ci piace. Sono lontani i tempo dell’Anànche greca, la necessità frutto del capriccio degli dei cui non possiamo che sottometterci. L’uomo moderno ha asserito il proprio trionfo sulla Natura con la tecnica e sull’Altro con vari strumenti fra cui la retorica.

Il che ci rende potenti/responsabili degli eventi della Natura e dei rapporti con l’Altro: ma questo altro è sempre un Alius, un alieno, o un bàrbaros, al massimo uno Xènos, uno straniero – non ci è mai veramente simile, non è uno dei “nostri”.

E l’accento si sposta facilmente dalla responsabilità per posarsi esclusivamente sul potere. La responsabilità prevede anche dei doveri ed è molto più comodo lasciare ad altri queste incombenze. Altri saranno, quindi, i colpevoli. Anche quando diciamo “siamo tutti colpevoli” in realtà stiamo pensando agli altri: noi non ci mettiamo veramente nel mucchio (altrimenti diremmo: “io sono colpevole”).

Ecco quindi il primo cardine: l’illusione del controllo.

  • “Sì, è vero, ma è anche colpa tua” (=se non avessi fatto così avresti potuto evitare).
  • “Sì, ma dovresti fare così” (=puoi ancora evitare).
  • “Sì, ha un prezzo, ma vale la pena pagarlo” (per placare l’aggressore).

Che è un po’ come offrire in pasto un figlio a un branco di tigri sperando che si sfamino. O “sacrificarne” uno agli dei, perché siano benevoli (perché sì, molte società facevano sacrifici umani).

La condizione di vittima è così penosa che chi la subisce in prima persona la tramuta, pur di non riviverne l’impotenza, in senso di colpa. Chi invece la osserva, per distanziarsene, la trasforma in disprezzo. Ma questa non è una necessità: bastano empatia, umiltà, fortezza.

E qui veniamo al secondo cardine, ovvero le caratteristiche psicologiche di questi saccenti: narcisismo, insicurezza, rigidità (mentale o ideologica). Ovvero la non disponibilità a cedere il primato del proprio Io, della propria cerchia intellettuale, della propria cultura o comunità di appartenenza.

Nel caso di una cultura poi, assistiamo a un curioso fenomeno di split: essa è causa dei mali del mondo, ma il nostro Catone non se ne sente contaminato perché la denuncia. È quindi un puro in una società immonda. Non solo: una società immonda che però trionfa (avendone responsabilità e quindi potere) sulle altre – e lui trionfa su di essa in virtù della propria purezza. Il vertice del vertice.

Il premio non è una semplice ospitata televisiva, quindi, soprattutto se finora si è dimenato nella mediocrità senza capire perché il suo scarso talento non sia stato mai scoperto e osannato.

Questa è lo sua grande rivincita. Se la goda pure, se pensa che valga la pena. Ma sappia che non basta mai.

Nota: degli aspetti psicologici di vittima e carnefice ho parlato già qui.

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