Come mai l’abominevole assassinio di due bambini diventa il dramma di un padre disperato? La risposta non è facile e ha radici profonde: mi servirà un thread lungo per rispondere (nei limiti di quanto si possa rispondere su Twitter e non in un volume).

Mi riferisco qui ai titoli di giornale e non allo specifico caso di cronaca di cui non so nulla – quello che mi interessa è esclusivamente la risonanza sociale del fatto, non la dinamica interna. Si incrociano, in questo genere di episodi, diversi elementi.

1. L’empatia col carnefice.

Siamo portati a empatizzare col carnefice. Perché? Il carnefice è una vittima. Ha subito e non ha retto alle pressioni. Ha “reagito”. È, quindi, un rivoluzionario. “Chi di noi al posto suo non avrebbe potuto fare lo stesso?”

“Il mostro non alberga forse dentro tutti noi?” Rettifichiamo allora: non empatizziamo affatto, ma proiettiamo e ci identifichiamo. La misericordia verso l’assassino è la misericordia verso le nostre pulsioni distruttive. È un atto autoassolutorio. L’assassino è un piccolo Prometeo, ma la metafora qui si ferma perché mentre i greci avevano chiarissime le conseguenze delle proprie azioni (Edipo, ignaro, si unisce alla madre ma quando lo scopre si cava gli occhi) a noi l’assoluzione non basta. Noi vogliamo anche l’annullamento della pena. Vogliamo per noi stessi la “giustificazione”. Insomma, il carnefice – in un curioso processo di inversione – è la vittima con cui ci vogliamo identificare.

2. Cattiva educazione.

Questi movimenti verso il carnefice sono sospinti da una cattiva educazione alla gestione di:

  • rabbia/aggressività
  • relazioni
  • colpa/vergogna/responsabilità
  • pulsioni
  • sessualità
  • maturità adulta
  • etc.

Il “dovere di essere se stessi”, nuova direttiva etica, omette di spiegare cosa significhi poi veramente essere se stessi (o, a volte, persino “essere”).

Nota: sull’Io sovrano ho scritto altrove, a lì rimando.

3. L’empatia impossibile con la vittima.

La vittima non gode della stessa misericordia. Anche in quel caso le posizioni si invertono e diventa in qualche modo colpevole (non mi dilungo qui sul processo vittimario). Ma, di nuovo, il problema non è l’empatia ma l’identificazione: non ci vogliamo affatto identificare con la vittima. La sola idea ci turba: la vittima ha subìto, non si è potuta difendere – e questo la denota per una sola caratteristica essenziale: non ha il controllo.

E la mancanza di controllo, quando è implicato un altro essere umano che invece il controllo lo ha, ci fa orrore. La sensazione di impotenza, di terrore, di fronte a un essere umano che abusa di noi e/o ci uccide è inaccettabile. La respingiamo con forza. Non sono bastati 2000 anni di Cristianesimo per capire che l’Agnello di Dio è “sacer” perché “sacrificabile” (e sacrificato). È l’innocente che viene ucciso, deriso e vituperato. E i ladroni in croce erano due, ma ne vogliamo ricordare sempre solo uno.

Più banalmente, la soluzione all’angoscia della vittima è un hysteron-proteron: se ha subito quello che ha subito, deve aver fatto qualcosa che lo giustifichi. Questo risolve il “problema” della vittima, la sua impotenza che quasi ci disgusta. E tutto possiamo perdonare, tranne l’impotenza (altra nota, il problema del senso di colpa dell’abusato è praticamente ubiquitario in terapia)

4. e 5.  La malattia mentale come giustificazione / Il Maschile e il Femminile

Questi sono argomenti che ometto interamente perché richiederebbero un thread a parte ancora più lungo.

6. Titoli coraggiosi

Il tutto è condito dalla curiosa convinzione che dire qualcosa di “dis-sacrante” (termine quantomai adatto) renda automaticamente intelligenti, rivoluzionari, pensatori liberi dalle convinzioni.

Ridicolmente, oggi non c’è nulla di più omologato di questo atteggiamento. Ma acchiappa un sacco di clic.


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