Un articolo di JAMA del 2020 che offre analogie tra la propensione al cospirazionismo e la risposta neurofisiologica alla demenza ha generato reazioni piuttosto virulente (in chi, come al solito, probabilmente non ha letto l’articolo). Proviamo a fare un po’ di chiarezza.

L’articolo ha dei punti interessanti e presenta alcune problematicità. Su entrambi i fronti, quello che ci serve è stato perfettamente sintetizzato dalla sempre eccellente Barbara Gallavotti (e potremmo già fermarci qui):

I sensi comunicano al cervello delle informazioni false… e le zone del cervello che ricevono queste informazioni le inviano alla parte incaricata del pensiero razionale la quale fa tutti gli sforzi per dare un senso quelle informazioni… Secondo Miller, analogamente, quando ci convinciamo di un’idea falsa… il nostro cervello riceve delle informazioni infondate e le comunica alla parte dedicata al pensiero razionale – e questa le confeziona in maniera che siano convincenti

Gallavotti dissente dall’associazione tra questa modalità di convincimento e la mancanza di cultura scientifica – e io con lei per motivi che dovrebbero essere chiari più avanti.

Fra le problematicità, l’articolo è troppo disinvolto nell’associare singoli meccanismi a un comportamento molto complesso e ad attribuire le cause a fattori così puntiformi. Ma solleva delle questioni sostanziali che cercherò di riprendere spostandomi sul mio versante e muovendomi quindi dal polo biologico-neurofisiologico verso quello psicologico-psicopatologico (per il quale tutto ciò non è particolarmente nuovo).

Con buona pace di Hegel, partiamo dall’assunto che il reale non è razionale. La realtà ci giunge attraverso i sensi in modo totalmente “con-fuso” ed è il nostro cervello a “costruire” un ordine che ci permetta di muoverci in essa in modo orientato e strategico. Questo vuol dire distinguere e isolare gli stimoli che hanno valore da quelli che non ne hanno.

Mentre leggete questo post non state prestando attenzione a ogni singolo rumore di fondo che viene colto dal vostro orecchio. Se non fosse così saremmo sommersi di stimoli oltre la nostra capacità di elaborazione. In questo processo, il primo filtro è la percezione, che integra i dati sensoriali con l’esperienza e opera in modo sostanzialmente automatico e inconscio. Il cervello tende all’economia e non ci avvisa se non occorre.

Se siamo mediamente concentrati, non ci accorgiamo che sta suonando il telefono del vicino. Se suona il nostro, invece, sì. Sensorialmente i due suoni sono analoghi, ma il loro significato per noi è diverso e quindi si attiva o non si attiva una risposta comportamentale.

Il punto è che la razionalità giunge tardi in questo processo, spesso a giochi già fatti. È una strategia di organizzazione del mondo esterno molto efficiente in generale (e questo è il motivo del suo successo evolutivo), ma lavora comunque con ciò che le viene offerto. Maggiore la carica emotiva durante l’elaborazione di uno stimolo, maggiore è la possibilità che la funzione razionale riceva dati per la costituzione dei quali l’elemento interno, “costruttivo”, abbia pesato ben più di quello esterno.

“Era rigore? Ma certo! Arbitro cornuto!”

Una parte sostanziale dell’introduzione alla Psicopatologia Generale di Jaspers verte, del resto, proprio sui “pre-giudizi” (che divide in filosofici, teoretici, somatici, psicologici e intellettualistici, immaginativi, medici)…

Pregiudizi e presupposti

Nell’atto di intendere qualche cosa portiamo già in noi ciò che rende possibile il nostro modo di intendere e gli dà forma. Se da tale apporto il nostro modo di intendere viene falsato parliamo di pregiudizi; se ne viene invece favorito e facilitato parliamo di presupposti.

Pregiudizi.

Un procedimento che chiarisce la nostra autoriflessione critica è quello che ci rende coscienti di ciò che inconsciamente avevamo pensato come evidente. Fonte di pregiudizio sono per es. il bisogno di pervenire ad una comprensione unitaria del tutto, che potrebbe soddisfarsi con rappresentazioni fondamentali, semplici e conclusive, e quindi la tendenza a rendere assoluti singoli punti di vista, metodi, categorie; e inoltre la confusione tra il campo del sapere e il campo delle opinioni.

I pregiudizi gravano su di noi inconsciamente, come un peso che ci paralizza. In ciascun capitolo sarà nostro compito tentare di confutarli. Qui vogliamo caratterizzarne alcuni in forma esagerata, perché conoscendoli potranno essere ravvisati anche sotto i veli con i quali spesso ci appaiono.

…a dimostrazione di quanto lavoro occorra per permettere al pensiero di operare in modo razionale senza condizionamenti che sono per loro natura presenti e invisibili.

Ma cose simili le hanno espresse Habermas…

Il nostro comprendere è più determinato dai nostri pre-giudizi che dai nostri giudizi, e il conoscere è più un riconoscere che un pensare. Il problema ermeneutico è quello di distinguere i pregiudizi ostacolanti o facilitanti la comprensione, di metterli in gioco (e non di scartarli: è l’illusione storicistica) nella dialettica dell’interpretazione.

(da G. Ripanti, Introduzione a Habermas, Apel et al., “Ermeneutica e critica dell’ideologia”)

…o Peirce, solo per citarne alcuni

Il dubbio è uno stato di disagio e insoddisfazione contro il quale lottiamo per liberarcene e passare nello stato della credenza; mentre quest’ultimo è uno stato di calma e di soddisfazione che non desideriamo evitare o mutare per sostituirlo con la credenza in qualche altra cosa (…) “Noi ci aggrappiamo tenacemente non soltanto a credere, ma a credere proprio ciò che crediamo”.

(da E. Fadda, “Peirce”)

Torniamo ora alla questione cospirazionista. Abbiamo a che fare con una circostanza che:

  1. mette paura a livelli sia consci che ancestrali
  2. presenta informazioni molto complesse, quantitativamente sconfinate, fra le quali è difficile orientarsi e che cambiano col tempo

D’altronde viviamo in una società che premia e propaganda la sicurezza, le certezze, la logica binaria, il successo – e che vede i loro opposti come segno di fallimento, vulnerabilità, pericolo.

Si fa quindi più pressante l’urgenza di “mettere in ordine” la realtà in modo nitido, inequivocabile, rassicurante. Il cospirazionista non è sereno, direte giustamente voi. Sul ruolo della paura rimando a questo post.

Il bisogno di sicurezza trascende quindi la capacità di tollerare il dubbio, tanto che insicurezza e rigidità sono facilmente correlate:

“Map tests are easy to fail. Far more unsettling is that this lack of knowledge did not stop respondents from expressing fairly pointed views about the matter. Actually, this is an understatement: the public not only expressed strong views, but respondents actually showed enthusiasm for military intervention in Ukraine in direct proportion to their lack of knowledge about Ukraine. Put another way, people who thought Ukraine was located in Latin America or Australia were the most enthusiastic about the use of US military force.

These are dangerous times. Never have so many people had so much access to so much knowledge and yet have been so resistant to learning anything. ”

(Tom Nichols, “The Death of Expertise”)

Completiamo quindi le informazioni mancanti per sedare l’angoscia di fronte a un mondo incomprensibile attraverso meccanismi irrazionali (analoghi a quelli che si instaurano durante malattie neurologiche)? Sì, ovviamente sì, in varia misura sempre.

Il problema quindi non è il se, ma la misura (e la consapevolezza che se ne ha). Per questo sono d’accordo con Gallavotti che non c’entra il grado di istruzione. Anzi, un alto grado di istruzione può produrre strategie di (dis)adattamento anche più raffinate.

Gli elementi che giocano a sfavore sono piuttosto:

  • paura
  • rabbia
  • narcisismo
  • scarsa tolleranza alla complessità
  • scarso alfabetismo funzionale

…i quali non hanno necessariamente a che fare col grado di istruzione anche se ovviamente un elevato grado di istruzione espone più facilmente all’esperienza della complessità, dell’incertezza, del limite del sapere.

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