Parliamo di Covid e Salute Mentale (visto che se ne parla molto, ma se ne dice, in realtà, poco). Come sempre con le inevitabili approssimazioni di un thread su Twitter.

Mi riferisco qui alle implicazioni su larga scala: non quindi agli effetti diretti del Covid sul SNC ma solo a quelli indiretti dovuti alle situazioni quotidiane, sociali, psicologiche, antropologiche, mediatiche cui siamo tutti più o meno sottoposti.

È difficile avere numeri esatti (anche se qualcosa arriva), ma ci interessa poco la contabilità: la generale percezione è che la pandemia abbia aumentato il “bilancio netto”, per dirla brutalmente, di molte manifestazioni psicopatologiche (nota a margine: parlo di “bilancio netto” perché l’isolamento sociale, il telelavoro etc. hanno prodotto in un numero rilevante di persone una condizione di maggiore benessere, il che dovrebbe farci anche riflettere – ma è altro tema e non divago).

Annosa questione è la mancanza di risorse per la psichiatria territoriale: in termini economici, di personale, ma soprattutto di tipologia di risposta, essendo la psicoterapia gravemente sottorappresentata rispetto alle attuali necessità. Questo ragionamento, seppur corretto, lavora però su un piano di intervento terapeutico, mentre il termine forse un po’ desueto di “Igiene Mentale” prevede come non meno importanti gli aspetti di prevenzione (non solo secondaria e terziaria: anche primaria).

Prevenzione “primaria” vuol dire lavorare su un ambiente per eliminare i fattori di rischio prima che essi possano incidere sullo sviluppo di una malattia (molto sinteticamente: quella secondaria è la diagnosi precoce e quella terziaria è la riabilitazione).

Ora, mentre per le altre due si lavora su un individuo, per la prima si lavora su un ambiente e in assenza di una malattia. È un lavoro di previsione, un gioco di anticipo.

In medicina generale gli effetti sono misurabili (es: lotta al fumo → cancro al polmone). In psichiatria invece tutto è più fumoso, soprattutto quando dalla sfera francamente patologica ci spostiamo verso quella psicopatologia della vita quotidiana di stampo più nevrotico che riguarda molta più gente e che ha costi sociali elevati ma sommersi.

Il che ci porta a domandarci: come intervenire psichiatricamente, allora?

Ebbene, il punto è che la risposta non è psichiatrica. Per spiegarmi meglio, occorre soffermarci sui concetti di stress e/o trauma. Parlo qui di stress, ma il principio è trasferibile sul trauma con poche modifiche. Uno “stressor” non è un elemento “obiettivo”: è tale sempre in virtù del significato che gli viene attribuito da chi ne fa esperienza.

Quanto determinati stressors siano vissuti come tali o meno da diverse persone lo si percepisce facilmente scorrendo ciascuno la propria TL di Twitter. Credo che in questo anno sia diventato evidente a tutti.

Esempio: A me fa saltare i nervi il cane dei vicini che abbaia:

  1. per via del rumore
  2. perché penso a quanto sia maleducato il padrone
  3. perché lo vivo quindi come un abuso o un’ingiustizia
  4. perché mi angosciano gli abusi
  5. perché oggi sono nervoso
  6. etc.

La mia esperienza, la mia storia, il mio contesto, il mio vissuto, danno a quello stimolo il corpo di uno stressor e ne gonfiano il potenziale patogeno. Sorpresa: la percezione stessa dello stress in quanto tale è a propria volta uno stressor.

La mia sensazione è che siamo diventati molto rigidi e fragili e che percepiamo troppo facilmente i cambiamenti (e lo stress) come segni di ingiustizia (che richiedono quindi un persecutore) o come fonte di angoscia. In virtù di questa rigidità, assumiamo a nostra volta condotte psicologicamente violente nei confronti degli altri (incoraggiate da un sistema mediatico che divora engagement e lo trova soprattutto attraverso la rabbia). Da molto tempo, mi sembra (da ben prima della pandemia) siamo tutti molto, molto arrabbiati e non si sa bene perché.

Forse è ora di posare le calcolatrici e i grafici e, almeno su questo tema, cercare le risposte da altre parti. L’Igiene Mentale non è opera della psichiatria: è quella cosa che rende inutile la psichiatria. Mi piacerebbe dire che dovremmo chiedere ai filosofi, ma dopo alcune recenti spettacolari esibizioni ho le mie ragionevoli esitazioni e – per parte mia – credo che riproverò semplicemente a leggere Dostoevskij.

La morale, alla fine, è che come stiamo mentalmente dipende anche da come viviamo comunitariamente, da che visione abbiamo di noi stessi e della collettività, da quanto siamo in grado di rinunciare a nostre piccole prerogative per un bene più grande.


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