Le pratiche riabilitative maggiormente utilizzate al giorno d’oggi hanno le forme e le applicazioni più varie, ma condividono quasi sempre una definizione piuttosto accurata di alcune variabili fondamentali: il setting (in particolar modo i tempi ed i luoghi del lavoro); i ruoli dei terapeuti e dei riabilitatori, chiaramente distinti dagli utenti; i processi operativi, spesso predeterminati e standardizzati; la realizzazione di un prodotto che, se previsto, rappresenti efficacemente il lavoro svolto sia sul piano del risultato concreto che su un piano simbolico. La corretta definizione di queste variabili rende il lavoro con il gruppo dei pazienti più agevole e aiuta a quantificare i progressi e ad interpretare correttamente le difficoltà che possono insorgere di volta in volta. L’utilizzo del Cammino come esperienza riabilitativa pone una serie di questioni proprio per la apparente indeterminatezza di questi aspetti e merita dunque alcune considerazioni specifiche.

Per sua stessa definizione, il Cammino scompagina l’ordine naturale di setting, ruoli, processi e prodotti come siamo abituati ad immaginarli, potendo dare l’erronea impressione che non esistano oppure che siano fuori controllo. Essi invece esistono e incidono in modo determinante: solo comprendendone la peculiare espressione è possibile utilizzarli al pieno delle loro possibilità le quali, in questo modo, possono risultare addirittura amplificate rispetto alle pratiche più tradizionali.

Farò riferimento in questa sede al lavoro con un gruppo di utenti generici: in primo luogo, il discorso si può applicare indifferentemente a pazienti psichiatrici cronici, a persone con disabilità fisica, a tossicodipendenti, a minori, così come a qualunque altra forma del disagio, giacché esso è sostanzialmente indipendente dalla natura specifica del sintomo; in secondo luogo, verrà considerato il gruppo e la complessità di cui è naturalmente latore come parte integrante (e portante) del lavoro stesso.

Il tempo

Il tempo (o, meglio, il “tempo vissuto”) può essere suddiviso nelle sue tre componenti, come già nella concezione agostiniana: passato, presente e futuro. Di queste, due (passato e futuro) sono dotate di una propria estensione indefinita mentre quella intermedia (il presente) è “puntiforme”. Il viaggio è anch’esso tripartito, con la differenza che le due componenti di inizio e fine (la partenza e la meta) sono puntiformi, mentre il periodo intermedio è dotato di una propria estensione. Ogni viaggio incrocia queste due strutture temporali: il rapporto con il tempo, già prima che con lo spazio, è dunque parte integrante dell’esperienza del viaggiatore.

Si prenda ad esempio la storia di Ulisse: egli è costantemente proteso verso casa e la sua avventura coincide con l’esserne distante. Partenza ed arrivo delimitano l’Odissea, che si articola lungo le numerose vicende che lo separano dalla meta; quest’ultima, assente e lontana, è invece sempre presente nel desiderio di Ulisse e dà senso al suo girovagare. Ogni ostacolo che si frappone fra lui ed un altro passo verso Itaca va superato con una nuova strategia. Per il lettore, le difficoltà animano la trama ed arricchiscono la storia di Ulisse e dei suoi compagni, ma il protagonista ne farebbe volentieri a meno: ogni minuto lontano da casa è un minuto perso, ogni nuova esperienza assume valore solo nel momento in cui viene lasciata alle spalle. Il suo essere nel mondo è un essere disperso e tutto il mondo è un “altrove”, è un luogo in cui non vorrebbe essere, un luogo da attraversare e superare. Volendo estremizzare, l’approccio di Ulisse segue una logica prestazionale: al centro dell’esperienza c’è l’arrivo, cui tendere; il viaggio è “tempo intermedio”, intervallare, di per sé in-significante, perché significativo solo nella misura in cui viene superato e trascorso.

Il risultato del migrare di Ulisse è uno fra due sole opzioni: trovare casa o non trovarla. Ciò che di altro trova, non fa parte della propria destinazione, non fa parte di sé. Ogni risultato diverso dal trovare casa è un insuccesso; il risultato migliore possibile (tornare) è in realtà un risultato minimo: trovare ciò che già conosce e ama; il ritorno, ovvero il pieno successo, è però anche quello venato di fallimento, giacché ogni minuto di ritardo è una cicatrice, tempo perso, sprecato, che non gli verrà più restituito. In ogni esperienza di cammino, la metafora di Ulisse si propone come immagine inconscia della tensione all’arrivo. Questo atteggiamento è inevitabile, ma va integrato e bilanciato da una tensione opposta.

Prestazione ed esperienza

La logica prestazionale permea il nostro tempo e ci abitua a valutare l’esperienza in termini di prodotto e di risultato. In questo caso, siamo portati a valutare l’efficacia del nostro lavoro (di operatori come di viandanti) usando indicatori tangibili ed assoluti: quanto ci abbiamo messo? siamo arrivati tutti? Tutto ciò distoglie l’attenzione dal processo, che invece è snodo cruciale dell’esperienza del cammino. Camminare ci pone istante per istante a confronto con il nostro limite fisico (la fatica, la distanza) e psicologico (l’ansia di arrivare, la frustrazione) in uno stato di tempo sospeso in cui non siamo al via né siamo già arrivati. È fondamentale sottolineare che in questo non esiste alcuna differenza fra operatore ed utente: ciascuno si misura con il proprio limite personale e tutti condividono il fatto di averne uno. Per l’utente, il limite non è dato naturale, bensì nella sua evidenza diventa stigma, segno di diversità. Come per Ulisse, ragionare in termini di prestazione non può che produrre uno di due risultati: fallire od ottenere il risultato minimo (svolgere la prestazione attesa).

L’immagine da contrapporre alla metafora di Ulisse è dunque un’immagine in cui siano invertiti i valori attribuiti a percorso e meta ed in cui il percorso assuma valore in sé, mentre la meta si ponga come mero accidens. In Genesi 12,1, Dio dice ad Abramo: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria / e dalla casa di tuo padre, / verso il paese che io ti indicherò”. Abramo parte ed intraprende il proprio viaggio senza conoscere la destinazione, sostenuto esclusivamente dalla fiducia indiscutibile nel Signore. Come ad Ulisse, anche ad Abramo capitano avventure e disavventure, ma egli momento per momento è collocato al centro della propria esperienza ed ogni evento fa parte di una storia e di un disegno di cui si sente parte ed espressione. Mentre Ulisse è costantemente “fuori centro” e lo rimane fino al proprio arrivo, Abramo è pienamente “centrato” indipendentemente da dove si trovi. Tutto il mondo è ugualmente casa e percorso, perché egli porta in sé il senso del proprio viaggio (l’obbedienza alla parola divina) anziché attribuirlo alla destinazione formale. Questo approccio svincola totalmente dalla prestazione, portando a vivere ed “abitare” il luogo in cui si è, portatore di valore di per sé. Se l’evento intermedio (l’incidente di percorso) non è più ostacolo da superare o evitare, esso diventa esperienza. Ogni risultato è dunque un successo, per il solo fatto di essere esperito.

A chi abbia svolto un cammino, soprattutto se di proporzioni rilevanti, chiediamo spontaneamente come prima cosa: quanto ci avete messo? La risposta, quantificabile e misurabile, ci viene fornita facilmente. Molto più difficile è invece sapere: cosa avete fatto? com’è stato? giacché queste esperienze sono bagaglio personale ed intraducibile di chi le abbia vissute e condivise.

Lo spazio ed il setting

Come il tempo, anche lo spazio presenta caratteristiche particolari, innanzitutto per la non coincidenza fra “spazio” e “luogo”. I luoghi entrano ed escono dallo spazio del gruppo che li attraversa; lo spazio del gruppo, a sua volta, non è spazio fisico, ma esclusivamente spazio antropologico, vissuto, delimitato dall’estensione del gruppo stesso e quindi dinamico e mutevole. Il gruppo non ha quindi altro contenitore che se stesso e deve confrontarsi continuamente con il rischio della propria frammentazione. D’altro canto, la capacità di rimanere coesi, di “sentirsi insieme” (a prescindere dalla mera collocazione reciproca) è diretta espressione del gruppo non riconducibile a confini formali (come le pareti di un ambiente); il gruppo può scoprire così di essere capace di rimanere tale anche di fronte al rischio di disgregazione, di avere questa possibilità intrinseca, non bisognosa di una sovrastruttura esterna.

Appare chiaro che il setting di un gruppo che cammina è assolutamente peculiare e che i parametri che lo determinano sono scomposti rispetto al setting tradizionale. Il gruppo si pone in una condizione costitutiva di crisi continua, di sospensione, di confusione. Automaticamente, il gruppo esprime la propria capacità di sintonizzarsi e di sincronizzarsi, difendendo il proprio essere tale. Per quanto possa snocciolarsi, il “passo” del gruppo sarà effetto dunque di una sincronizzazione spontanea e non espressamente contrattata, effetto della capacità inconscia che il gruppo ha di difendere la propria integrità e la propria coesione. In un’ottica prestazionale, la perdita di un componente (per eccessiva stanchezza, ad esempio) non può che essere un fatto luttuoso sia per questi che per l’intero gruppo; sospesa l’ansia per l’arrivo, questo fenomeno può essere vissuto in altro modo. Ovvero: ogni persona partecipa nella misura in cui può e riesce; ci si misura con se stessi, non l’uno contro l’altro; l’esperienza è condivisa e conta la partecipazione più della prestazione (o, addirittura, la prestazione “è” la partecipazione). Se come si diceva sopra ciascuno si misura con il proprio limite, ciò vale anche per gli operatori. In particolare, al limite fisico si aggiunge il limite psicologico, a sua volta particolarmente stressato da una ulteriore ansia da prestazione dovuta all’attenzione per i processi in corso, alla tutela dei singoli partecipanti e allo stesso tempo del gruppo nel suo complesso, alla gestione pratica delle operazioni e dell’orientamento, etc.

Cionondimeno, un gruppo in cammino condivide la stessa sorte e la stessa esperienza, ben oltre la mappa interna dei ruoli che nelle situazioni classiche prevede una separazione piuttosto netta fra conduttore e partecipante, non solo nelle funzioni ma anche nella qualità dell’esperienza personale. Del resto, le competenze non sono completamente predeterminabili ed ogni componente – operatore o utente che sia – ha la possibilità di esprimerle (anche un operatore si può perdere, si può fare male, così come un utente si può orientare meglio degli altri). In questo quadro di maggiore “turbolenza”, l’operatore può limitare le proprie funzioni alla modulazione delle relazioni, al rinforzo positivo, al contenimento, senza la necessità di esprimere un ruolo istituzionale “forte” che invece può essere delegato, ad ulteriore vantaggio degli utenti. Questa esperienza può essere molto proficua proprio per operatori poco esperti (tirocinanti etc.), i quali, opportunamente supportati, possono sperimentare in prima persona la complessità del lavoro sulle relazioni piuttosto che sulle prestazioni, nonché la necessità di cogliere la persona umana oltre l’aspetto oggettivo, deficitario, nella sua libertà soggettiva.

Il limite e la libertà

Proprio la libertà è uno dei punti chiave della discussione. Gli utenti provengono il più delle volte da un’esperienza personale di disabilità, che viene colta nella propria valenza limitante. Portare a camminare utenti affetti da deficit motori può sembrare dunque un controsenso, soprattutto per la possibilità in agguato di negare la realtà o al contrario di accanirvisi contro sadomasochisticamente.

L’utente è innanzitutto portato a confronto con il proprio limite “qual è”, oltre ogni giudizio di valore. In questo, egli sperimenta come ogni altro l’esistenza di un limite che invece è usualmente negato, rifiutato o fonte di dolore. La libertà, immaginata troppo spesso come superamento di quel limite, può – nel riconoscere la limitazione come parte costitutiva dell’esperienza umana – configurarsi come libertà di muoversi, agire, esperire all’interno di – non oltre – la propria umana limitatezza. Libertà dunque come libertà “di” fare, non libertà “da” un vincolo.

Quanto detto fin qui rende evidente che il lavoro di un operatore in questa pratica presenta alcune difficoltà particolari e richiede dunque innanzitutto una grande capacità di discernimento. La sua condizione è continuamente quella dell’esser “dentro” come parte del gruppo che cammina e dell’esser “accanto” (perché in realtà non è mai “fuori”) come operatore con le responsabilità che questo ruolo comporta. La sua pratica non può separarsi però da questa oscillazione continua, da questa posizione di crisi permanente: al contrario, egli deve lavorare su entrambi i piani, confondendoli nella pratica ma sforzandosi di distinguerli nella propria testa, sì da ricondurre ogni emozione ed ogni stato al proprio corretto piano di appartenenza ed utilizzarli correttamente.


Questo brano, tratto da un intervento a un Convegno su Cammino e disabilità del 2007, è stato la base di una pubblicazione più approfondita ed estesa apparsa in AA. VV. “La funzione educativa del cammino. Aspetti pedagogici, psicologici e sociologici”, Roma, 2007.