Il mondo della psichiatria è apparentemente molto distante da quello della letteratura nel quale mi trovo volentieri, in questa sede, ospite. Nel portare il mio specifico, cercherò di dimostrare invece come alcuni ragionamenti si applichino indifferentemente ad entrambe le esperienze, perché hanno a che fare con la stessa natura umana. Parlando dell’una, posso quindi parlare automaticamente anche dell’altra. Data la vastità del tema, dovrò far ricorso per motivi di spazio e di comprensibilità ad una certa semplificazione sul piano teorico; inoltre, non potendo essere esaustivo, mi limiterò a solo a qualche considerazione.

Quando parliamo in ambito clinico di “narrazione”, non possiamo non pensare innanzitutto ad una tecnica terapeutica che sulla relazione verbale ha costituito il fondamento stesso della propria esistenza: la psicoanalisi. Dobbiamo a Freud l’elaborazione della teoria psicoanalitica: quest’ultima non nasce però dal nulla, al contrario si impianta su un filone di pensiero che già dalla prima metà dell’Ottocento aveva progressivamente formulato il concetto di “inconscio” così come lo intendiamo oggi. Già altri prima di Freud hanno quindi avanzato l’ipotesi che una parte della nostra anima, della nostra psiche, non ci sia immediatamente presente. Questo concetto, oggi quasi banale, era in realtà molto difficile da accettare in un’epoca pervasa di un positivismo per cui il vero deve corrispondere sempre al verificabile; si tratta quindi di una piccola rivoluzione, anche perché per la prima volta sostenuta da argomentazioni via via sempre più scientifiche. Freud ha il merito di essere il primo ad organizzare il tutto in una teoria sistematica, tale da tracciare anche linee terapeutiche empiricamente efficaci.

La teoria in questione prevede che esistano due parti della psiche, una inconscia ed una conscia (in realtà tre – conscio, preconscio ed inconscio – almeno secondo la prima teorizzazione freudiana, ma, come detto, semplifichiamo) e che i contenuti presenti nella prima, pur invisibili ai nostri occhi, abbiano degli effetti (quali i sintomi nevrotici o i lapsus) sull’altra. L’accusa rivolta a Freud dai contemporanei è quella di occuparsi di “metafisica” (il termine, rivolto ad uno scienziato, ha all’epoca un senso nettamente dispregiativo); al contrario, Freud è un autentico materialista: procede secondo il metodo scientifico e non si abbandona neanche per un istante, proprio in un terreno così insidioso, ad alcuna concessione sul piano della metafisica, della religione né tantomeno della superstizione. Il punto originale di questa teoria è che di noi stessi esiste una parte che ci sfugge: una considerazione tanto più significativa se consideriamo che noi stessi siamo il primo (e per certi versi l’unico certo) dato di esperienza. In sintesi, noi non siamo ciò che sappiamo di essere.

Secondo Freud, i disturbi nevrotici non sono manifestazioni capricciose ed irrazionali, ma esiti di relazioni di cause ed effetti pienamente comprensibili. Attraverso il processo analitico, questi processi sono ripercorribili all’indietro, alla ricerca di quelle cause che esse sole sono ignote, ma che, una volta reperite, risultano anch’esse pienamente “comprensibili”. La pratica analitica si configura dunque come una ricerca quasi “investigativa” dei nessi, (che sono nessi totalmente deterministici), fra effetti noti e cause comprensibili ma celate al di sotto della coscienza. Nella sua prima formulazione, l’inconscio freudiano è appunto la sede del rimosso, il luogo in cui confiniamo i contenuti sgradevoli e da cui però questi ultimi agiscono indisturbati sulla nostra vita cosciente. Ne discende che, se fossimo sufficientemente accurati e pazienti da rintracciare tutti questi nessi, potremmo teoricamente “esaurire” l’inconscio portandolo interamente alla luce. Ben presto lo stesso Freud ha dovuto modificare questa impostazione ed ammettere che vi fosse anche dell’altro, ovvero che parte dell’inconscio non potesse che rimanere tale durante tutta la vita: vi identifica quindi la sede degli istinti nella loro forma naturale e prima di ogni rappresentazione mentale. Questi istinti producono l’energia vitale che anima le nostre azioni, sane o nevrotiche che siano. Viene avvalorata l’irriducibilità dell’inconscio all’esperienza cosciente e al contempo rimane confermata l’adesione ad un modello puramente biologista. Ne risulta un concetto di inconscio diviso fra ciò che è rimosso, e dunque recuperabile ed esauribile attraverso l’analisi di nessi deterministici, e ciò che è inaccessibile perché per sua stessa natura mai rappresentabile direttamente. La coscienza rimane il polo fondamentale per sciogliere i sintomi: conoscere le cause ed i meccanismi, portare alla luce i traumi, ridurre per quanto possibile l’ombra dell’inconscio sono gli snodi fondamentali dell’atto terapeutico all’insegna di un moderno gnoti seautòn.

Il conflitto fra la teoria freudiana e quella junghiana (quest’ultima, lo dichiaro, è quella che incontra la mia preferenza) si gioca su alcuni punti chiave, uno dei quali è proprio il concetto di inconscio. È alla seconda che farò maggior riferimento per quanto segue. Nella teoria junghiana l’inconscio è uno spazio virtualmente infinito (Jung sostiene che oltre l’inconscio individuale esista quello collettivo, dovuto alla stratificazione filogenetica di tutte le generazioni che ci hanno preceduto), estremamente plastico, produttore incessante di immagini e simboli, contenitore di tutte le nostre varie possibilità e disposizioni, in relazioni dinamiche e fluttuanti fra di loro. L’approccio junghiano non è tanto focalizzato al primato della coscienza, quanto all’armonia ed integrazione fra le parti, alla riequilibratura di un tutto (il Sé) che rimane però costituzionalmente in larga parte inconscio. Mi è impossibile sintetizzare in questa sede l’approccio junghiano, peraltro molto meno sistematizzato di quello freudiano cui già ho fatto sufficiente violenza. Mi limito dunque a riflettere su cosa significhi, al di là della teoria di riferimento, l’esistenza di un inconscio inesauribile: come ci dobbiamo porre nei confronti di qualcosa che ci riguarda, che è ciò che noi stessi siamo, che possiamo in una certa misura anche cogliere ed in parte svelare, ma che non possiamo mai esaurire? Se infatti l’inconscio è finito, almeno come ipotesi possiamo pensare di “esaurirlo” e diventare, almeno teoricamente, esseri totalmente consci; ma se invece è infinito ed inesauribile dobbiamo ammettere di avere una parte di noi che ci sfuggirà per sempre, ovvero che è nel nostro stesso destino e nella nostra natura non poterci cogliere mai “interamente”.

Uno dei luoghi comuni a proposito dell’analisi è appunto che essa sia un meccanismo di autoconoscenza: ho un disturbo (la fobia dei gatti), ma non ne conosco la causa, giacché non ricordo esperienze traumatiche con i gatti; entro in analisi e di collegamento in collegamento rivelo il trauma originario attualmente inconscio e capisco come mai proprio sui gatti, attraverso collegamenti simbolici, ho proiettato il mio terrore. L’analisi in questi termini è dunque un processo di comprensione dei nessi causali e di reperimento dei contenuti rimossi. Tutto ciò è metodologicamente corretto e spesso efficace. Capita però sempre più di frequente (un secolo di cultura analitica ha influenzato il modo di pensare dell’intera popolazione ed il modo di porsi nei confronti dell’ansia e della propria interiorità) che il paziente abbia ben chiaro il trauma originario; talora, ha anche sufficienti capacità introspettive da intuirne i meccanismi psicopatologici: già sa quel che c’è da sapere. L’aspettativa che il percorso analitico sia un semplice processo di conoscenza dei nessi può rivelarsi molto deludente: il paziente racconta e riracconta anche per anni la propria storia cercando di capire il nesso di causa ed effetto tra quello che gli è successo e quello che gli succede ogni giorno e non lo capisce: non lo capisce perché già lo sa. Il primo dei falsi miti dell’analisi è che la verità sia di per sé terapeutica, ovvero che basti portare alla luce un elemento inconscio all’origine di un conflitto per sciogliere quest’ultimo.

Può capitare però anche un’altra cosa, in analisi: che un paziente arrivi senza sapere perché sta in un certo modo, ha comunque la sua ipotesi (perché tutti ce ne facciamo sempre una, più o meno consapevolmente), parla, parla e parla ancora e senza sapere né perché, né come gli sia successo, ad un certo punto dice: “È cambiato qualcosa, non vedo più le cose come prima”. Questa non è necessariamente una scoperta rasserenante: il mondo seguiva certe regole ed ora ne segue di nuove, ma non si sa ancora precisamente quali regole siano. Di fatto è avvenuta una trasformazione, ma i nessi di causa ed effetto sono totalmente ignoti, come lo erano anche prima, e noti non lo sono mai stati: semplicemente è successo che nel raccontare e nel raccontarsi sia avvenuto qualche cosa. Questo è l’obiettivo reale: non un lavoro di comprensione, ma un processo di trasformazione, ovvero che il paziente esca dall’analisi e stia bene (o quanto meno meglio di prima), non che sia più “istruito” su se stesso. Non ha senso rendere una persona più consapevole e più infelice. Come succede questa cosa? L’analisi è fondata esclusivamente sul dialogo, all’interno di un insieme di regole che si chiama setting. Le regole sono estremamente restrittive e spostano tutto sul piano dell’interazione verbale: qualunque cosa può succedere purché succeda nel linguaggio. Alla mera ricerca dei nessi causali si aggiunge inevitabilmente la liberazione di una dimensione narrativa di sé. Quando una persona parla di sé, nel contesto analitico come in ogni altra circostanza, non sta “riferendo” qualcosa di sé, ma si sta sempre in qualche modo raccontando: scegliendo quelle parole, quel linguaggio, dando automaticamente un’interpretazione di sé. La narrazione è inoltre una comunicazione esplicita: quando articoliamo un discorso siamo costretti a formulare quelle che sono pure idee e rimangono perfette nella nostra testa, oggettivandole (i pensieri, finché rimangono nella nostra testa, ci sembrano sempre perfetti, poi quando li esprimiamo e diamo loro una forma li percepiamo per quello che sono e a volte noi stessi li scopriamo in quell’istante); il linguaggio è l’unico modo che abbiamo per oggettivare quello che invece è puramente soggettivo perché confinato entro i limiti della nostra testa. Quello che abbiamo dentro di noi non può uscire e non può essere trasmesso ad altri se non attraverso il linguaggio (trascuro intenzionalmente in questa sede ogni considerazione su empatia, comunicazione non verbale etc.). Faccio un esempio. Ci sono persone che hanno subito traumi indicibili, il più comune è un abuso in famiglia. Questo trauma è ben presente nella testa del paziente, il punto è che esso non è mai stato detto, non può essere detto ed attiene ad una area di segreto; quest’ultima non è un’area di semplice silenzio, bensì di mutismo, è qualcosa  che è impossibile comunicare. Ciò genera poi comportamenti nevrotici, disturbati e, infine, la “malattia”.

Allora non è il riportare alla coscienza quel contenuto che guarisce da quel contenuto, perché quel contenuto è già in qualche misura presente alla coscienza. Queste persone, costrette a confinare questo contenuto in un’area di indicibilità, perdono il senso di realtà di quel che è successo, dubitano del fatto stesso che sia realmente avvenuto, temono che potrebbe essere anche stato un parto della loro fantasia. Peraltro, in questi casi, a comportamenti abusanti che avvengono anche ripetutamente nel momento in cui avvengono si contrappone nel tempo rimanente un comportamento assolutamente normale dell’abusante e di tutto il contesto familiare che convalida l’opinione che quell’evento “non può essere successo”. Nel momento in cui la cosa viene raccontata, si dà a questa cosa il valore di realtà e ciò può succedere anche vent’anni dopo. Quindi la conoscenza di per sé non serve o non basta: quel che conta è che il raccontante conferisce realtà a quel che fino a quel momento è stato solo suo e finché è solo suo esiste solo dentro di lui; e siccome noi viviamo in un koinòs kòsmos, non è reale, ma esiste solo nell’ìdios kòsmos del paziente, che però è il mondo dei pazzi, perché sono i pazzi quelli che vedono le cose che gli altri non vedono. Raccontarsi in un contesto analitico implica che ci sia un raccontante ed un destinatario (per quanto silenzioso) e tutto ciò, cosa fondamentale, avviene all’interno di una relazione. La narrazione in questo è relazione, anche oltre l’esperienza analitica: che il destinatario sia un analista o un lettore, è sempre un destinatario reale e non un “interlocutore interno”.

La narrazione è dunque il modo in cui la nostra personalità ha la possibilità di esprimersi oltre la trasmissione del mero dato informativo e di rappresentare se stessa in tutte le proprie ambigue sfumature, di farsi presente a se stessa e rendersi reale, di uscire dall’ìdios kòsmos ed entrare nel koinòs. La parte che ci è invisibile è tale perché la nostra necessità di avere informazioni univoche, non contraddittorie, rassicuranti, non ci consente di sostenerne lo sguardo. La narrazione rende visibile questa parte invisibile, ma non lo fa rendendola “visibile alla vista”, bensì nel senso della “visione” e della rivelazione: ciò che si svela, nel momento stesso in cui appare si ri-vela, perché la sua natura è complessa e simbolica e non ci sarà mai possibile tradurla in semplice dato obiettivo. Una parte di noi, in sintesi, non può che essere trasmessa poeticamente e narrativamente, giovandosi di tutte le figure da cui il linguaggio tecnico cerca forzosamente di spogliarsi: il simbolo, la metafora, la suggestione, l’alone semantico, l’evocazione, la risonanza con le immagini dell’altro e della collettività.

Lo hanno capito immediatamente proprio i primi psichiatri moderni, autori di storie cliniche degne della migliore letteratura: “Tutti credono, riprese [Freud], che io tenga al carattere scientifico della mia opera e che il mio scopo principale sia la guarigione delle malattie mentali. È un enorme malinteso che dura da troppi anni e che non sono riuscito a dissipare. Io sono uno scienziato per necessità, non per vocazione. La mia vera natura è d’artista. […] E  c’è  una prova inconfutabile: in tutti i paesi dov’è penetrata la Psicoanalisi essa è stata meglio intesa e applicata dagli scrittori che dai medici. I miei libri, difatti, somigliano più a opere di immaginazione che a trattati di patologia […]. In ogni modo ho saputo vincere, per una via traversa, il mio destino e ho raggiunto il mio sogno: rimanere un letterato pur facendo, in apparenza, il medico. In tutti i grandi scienziati esiste il lievito della fantasia […], ma nessuno si è proposto, come me, di tradurre in teorie scientifiche le ispirazioni offerte dalle correnti della letteratura moderna. Nella Psicoanalisi si ritrovano e si compendiano, trasposte in gergo scientifico, le tre maggiori scuole letterarie del secolo decimonono: Heine, Zola e Mallarmé si congiungono in me sotto il patronato del mio vecchio maestro, Goethe.” (G. Papini, Visita a Freud. In Gog. Vallecchi, Firenze, 1931, pp. 124, 129-130, cit. da J. Hillman, Le storie che curano. (1983), tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano,1984).


In Atti del Convegno “In principio era il racconto”, Reggio Calabria, 2007