La poesia può essere facilmente e banalmente identificata con una mera espressione degli stati d’animo del poeta, quasi che si tratti di un lavoro di introspezione cui segue la ricerca di una forma sufficientemente suggestiva da trasmettere questi contenuti introspettivi in modo efficace.

Molti poeti in erba affrontano la pagina innanzitutto a scopo “liberatorio”, per appagare un bisogno di trasmettere e condividere ciò che altrimenti rimarrebbe confinato all’interno della propria dimensione interna; è facile però che questo si riduca ad uno sbrodolamento autoreferenziale che si esaurisce nel momento stesso in cui si compie. L’esperienza della mailing list di BombaCarta, in cui ciclicamente si propongono dinamiche del genere, insegna che questo è un atteggiamento frequente, a volte quasi estremo, monologante. Più è radicale, più è difficile per l’autore sopportare la frustrazione di non essere capito o accolto. Criticare l’opera equivale in quel caso a criticare la persona stessa dell’autore, dal momento che questi la porta come rappresentazione piena e spontanea di sé. La frustrazione maggiore sembra legata allo stupore nel vedere che pochi versi che appaiono a chi li abbia scritti così pieni di emozione, senso, valore, risultino al lettore invece privi di interesse o di significato, se non addirittura fastidiosi. Tutto ciò non è un fatto negativo (anzi! direi che è un passaggio quasi inevitabile), purché apra un nuovo orizzonte in cui la parola poetica non debba semplicemente “espellere” un contenuto emotivo, ma lo debba anche realmente condividere e trasmettere (e ciò presuppone la relazione con un ascoltatore). In questo senso, una mailing list come quella di BombaCarta diventa uno strumento di crescita personale, ben oltre il valore “tecnico” dei suggerimenti che possano esprimersi nelle varie discussioni.

Esiste anche la dimensione opposta, quella della forma: il poeta affermato e celebrato viene lodato spesso per lo stile, per l’impronta personale, per ciò che viene attribuito ad un talento o ad un travaglio interiore che nobilita l’opera. Ma sappiamo benissimo che maggiore è il successo, maggiore può essere la tentazione di approfittare di esso e prendere un po’ in giro il pubblico con qualche fuoco d’artificio sparato ad arte, che sia per pigrizia, per narcisismo o per il sacrosanto bisogno di fare qualche soldo. In realtà poi no, non lo sappiamo nemmeno: intuiamo che sia teoricamente possibile ma nessuno ci darà mai la prova definitiva che questa o quell’opera siano frutto di autentica ispirazione o gioco (piro)tecnico.

Voglio sciogliere subito la questione: questo discorso ci porterebbe a distinguere bravi poeti da cattivi poeti, opere buone (o “autentiche”) da opere cattive (o “fasulle”) e non voglio cadere nella trappola. Sta di fatto che per quanto i due argomenti sin qui portati appaiano distanti, fanno parte dello stesso mondo e il punto non è in questa dialettica interiorità-forma. Del resto, anche il più disonesto degli autori può, a mio parere, creare un’opera formidabile perché in questo misterioso processo le sue stesse intenzioni hanno un ruolo, sì, ma non poi così determinante. E al di là di quanto possa essere artificiale, autoreferenziale, fallimentare la risposta, senz’altro è vero ed autentico il bisogno che le dà origine. È quindi su questo bisogno che occorre innanzitutto interrogarsi.

Proprio a questo scopo, la questione che ho voluto porre scegliendo il titolo del mio intervento si orienta in un’altra direzione: esiste una relazione fra poesia e realtà? e, di conseguenza: la poesia ci “dice” qualcosa della realtà? Fin qui abbiamo discusso di quanto la poesia ci parli dell’autore. La domanda invece è: la poesia è uno strumento di conoscenza della realtà?

La coppia che consideriamo cambia da poesia-autore a poesia-realtà. Nonostante secoli di critica ci portino ad interrogarci sulle grandi questioni dell’arte e della letteratura, dobbiamo sorprendentemente osservare che l’elemento fragile di questa coppia ed incerto non è la poesia, ma proprio la realtà. Nell’ultimo secolo quest’ultima è stata gradualmente e sistematicamente spogliata di una serie di connotazioni che le appartenevano da sempre. Fino alla nascita del metodo scientifico sperimentale, l’insieme di “credenze” si costituiva sulla base dei dati sensibili dell’esperienza (quel che vedevamo direttamene), su quella dei nostri pensieri e delle nostre riflessioni (anche attraverso sistemi filosofici talmente sofisticati da influenzarci tuttora) ed infine sulla stratificazione di una serie di tradizioni e di saggezza tramandata: in quest’ultima rientrano ad esempio i proverbi popolari (ne ha parlato Valerio Chiovaro nella propria relazione), i racconti di viaggio, le grandi opere della letteratura popolare, la fiducia cieca nell’ipse dixit di turno, ciascuno alla propria maniera. Nel Seicento, la nascita del metodo galileiano sposta la prospettiva della conoscenza e dell’indagine, giacché presuppone che innanzitutto sia vero ciò che è sperimentabile. Lungi da me anche solo alludere al fatto che la rivoluzione scientifica abbia procurato un danno: osservo però che ciò che avviene oggi è un’aberrazione di questo atteggiamento che rischia di ottenere effetti addirittura opposti ai propri propositi.

Se infatti prima come detto credevamo vero ciò che era sperimentabile, oggi crediamo falso ciò che non è sperimentabile. La differenza è sottile eppure drammatica perché coarta il nostro orizzonte lasciando nel nostro campo di osservazione e di indagine solo ciò che già ci vediamo; l’unico modo che abbiamo di ampliare questo orizzonte è di procedere attraverso le vie note dell’indagine logico-razionale e della sperimentabilità. Per un gioco del destino, negli ultimi sessant’anni questo metodo si è dovuto servire sempre più spesso (dalla fisica delle particelle alla sperimentazione clinica dei farmaci su grandi casistiche che devono essere omogenee per dare risultati attendibili) della statistica, ovvero della probabilità.

Antonio Spadaro ha parlato della differenza fra possibilità e probabilità; tale differenza non è semplicemente quantitativa (la possibilità è meno probabile), al contrario è sostanziale. La probabilità si pone nei confronti della realtà attraverso una “enumerazione” dei fenomeni, la riduce ad elenco di cose perdendo peraltro la capacità di discernere le relazioni fra gli oggetti. La probabilità omogenizza la realtà per renderla più maneggevole, la approssima per permetterci di gestirla. Per verificare l’effetto di un farmaco dobbiamo sperimentarlo su mille persone uguali – o almeno che siano uguali rispetto a qualcosa e considerando le altre variabili ininfluenti. Solo a quel punto avremo la garanzia che gli effetti riscontrati siano attribuibili al farmaco e non ad altro. Non c’è nulla di male a semplificare, il nostro cervello lo fa quotidianamente: semplifica gli stimoli, li seleziona, li sintetizza, filtra la realtà in modo da presentarcene una parte per volta: se non si comportasse in questo modo impazziremmo, sommersi da un flusso ininterrotto e contemporaneo di segnali esterni. Diventa invece un problema quando questa semplificazione ci fa dimenticare la complessità originaria da cui siamo partiti. Al contrario, sembriamo aver sviluppato una scarsissima tolleranza alla complessità, indulgendo troppo spesso non nella semplificazione, quanto piuttosto nel riduzionismo e soffermandoci nell’analisi sempre più minuziosa perdendo la capacità di produrre poi un pensiero sintetico.

Ma perché non tolleriamo più la complessità? e perché soprattutto, a dispetto di oltre quattrocento anni di metodo scientifico, ciò è avvenuto solo nell’ultimo secolo? La mia personalissima opinione a riguardo è che ciò dipenda da una concomitante incapacità di tollerare il conflitto. Si presuppone ingenuamente che se le cose sono logiche, debbano essere univoche ed inequivocabili. Se fosse realmente così, saremmo sempre tutti d’accordo su tutto; eppure l’esperienza del Novecento ci ha dimostrato come le maggiori mostruosità prodotte dall’uomo siano state sostenute proprio da sistemi di una logicità impressionante.

A questo proposito, già all’inizio del secolo scorso G. K. Chesterton spiegava brillantemente:

Tutto si dice di un pazzo, ma non che egli agisca senza causa. Se si potesse parlare di azioni umane senza causa, esse sarebbero, se mai, certe piccole azioni che un uomo sano compie senza annettervi importanza: fischiettare camminando, colpire l’erba col bastone, darsi pedate sui garretti o fregarsi le mani. È l’uomo felice che fa le cose inutili; l’uomo malato non ha la forza di abbandonarsi all’ozio. Queste azioni fatte negligentemente e senza scopo sono proprie di quelle che il pazzo non potrebbe mai capire; il pazzo (come il determinista) vede in ogni cosa un eccesso da causa. Il pazzo troverebbe un significato cospiratorio in quest’attività a vuoto. Battere l’erba sarebbe, per lui, un attentato alla proprietà privata, colpirsi le gambe sarebbe un segnale fatto ad un complice (…). Chi per disgrazia, ha avuto a che fare con persone che erano folli, o sull’orlo della follìa, si sarà accorto che la loro più sinistra qualità è una chiarezza di particolari veramente terrificante: essi connettono una cosa con l’altra sopra un piano più complicato di un labirinto. Se discutete con un pazzo, è oltremodo probabile che abbiate la peggio: perché il suo cervello cercherà tutte le strade per non essere trattenuto da argomenti che lo condurrebbero ad un retto giudizio. Egli non è trattenuto dal senso del ridicolo o dal sentimento della carità o dalle mute certezze dell’esperienza. Egli è tanto più logico in quanto ha perduto ogni affetto sano. La frase con la quale generalmente si designa la pazzia è sotto questo rispetto sbagliata. Il pazzo non è già l’uomo che ha perduto la ragione, ma l’uomo che ha perduto tutto fuor che la ragione.

(Da G. K. Chesterton, Ortodossia, Brescia, 200511).

Il paranoico comincia a pensare che la realtà converga malevolmente verso di lui, e lo fa attraverso una serie di ragionamenti  assolutamente impeccabili. Il delirio dunque non è una malattia della logica, ma il segno di una perdita di relazione con il mondo, è la perdita della capacità di cogliere le relazioni fra le cose nella loro spontaneità. Noi talora usiamo la logica per placare le nostre inquietudini, soprattutto quelle inspiegabili, perdendo la capacità di cogliere sfumature che non possono essere colte che come sfumature.

Christopher Lasch cita Philip Roth:

Una volta, prima che un’osservazione del genere diventasse un luogo comune, Philip Roth osservò che l’immaginazione vacilla davanti all’“attualità” contemporanea, che “supera continuamente il nostro talento”. I giornali e i notiziari televisivi riportano eventi più grotteschi e  bizzarri dei sogni più sfrenati di uno scrittore. La nostra cultura “genera quasi ogni giorno figure che fanno invidia a un romanziere”, È una cosa che “lascia a bocca aperta, che fa star male, che fa infuriare e che finisce per metterci un po’ in imbarazzo per la miseria della nostra immaginazione”. Sconcertati e disgustati, gli scrittori, secondo Roth, lasciano stare i “grandi fenomeni politici e sociali del nostro tempo” e “prendono a soggetto l’io”: il “puro fatto dell’io, la visione di un io inviolato, potente, forte, l’io come unica cosa reale in un ambiente irreale”.

(Christopher Lasch, “L’io minimo”, Milano, 1985).

È una visione severa e tutt’altro che ottimista, ma è anche condivisibile, anche perché è quella del romanzo del Novecento, della concentrazione sul proprio ombelico, della descrizione di un orizzonte sempre più ristretto, claustrofobico e privo di senso.

In un panorama culturale terrorizzato dal conflitto, l’unica strategia di sopravvivenza è, come dice Lasch, lo sviluppo di un “Io minimo”, un io al più basso grado di identità e di conflittualità con l’ambiente esterno, un io capace di difendersi dalla conflittualità solo attraverso la tolleranza, il disinteresse o il relativismo. L’aspettativa generale è che la relazione sia innanzitutto conflitto e ciò vale addirittura ormai per le relazioni d’amore. Le coppie si uniscono con programmi a tempo, con la prospettiva di “durare” finché si dura senza la disponibilità ad affidarsi l’un l’altro permanentemente. La relazione è dunque conflitto oltre il quale e superato il quale è possibile intravedere un faticoso panorama di condivisione, continuamente però minacciato.

Difficile non raggiungere le conclusioni di Sartre, da questi presupposti: l’enfer, c’est les autres (J. P. Sartre, “A porte chiuse”, 1944).

Cosa c’entra tutto questo con la poesia? Queste argomentazioni sono logiche ed impeccabili, cionondimeno dissento profondamente. A Roth rispondo nuovamente con le parole (abbondantemente precedenti) di G. K. Chesterton:

Questa è ancora la ragione per cui i romanzi moderni vengono subito a noia, mentre le vecchie novelle delle fate durano sempre. Le vecchie novelle delle hanno per protagonista un ragazzo qualunque, Sono le sue avventure che lo rendono interessante; e lo rendono interessante appunto perché è un ragazzo qualunque. Nel moderno romanzo psicologico, il protagonista è un anormale: il centro è fuori centro. Onde le avventure più straordinarie non hanno in lui una ripercussione adeguata, e il libro riesce monotono. Si può fare la storia di un eroe in mezzo ai dragoni, non quella di un dragone in mezzo ai dragoni. Le novelle delle fate hanno per oggetto un uomo normale in un  mondo anormale. Il solito romanzo realistico di oggigiorno ci presenta un lunatico essenziale in un mondo idiota.

(ibid.)

Allora, se siamo pur d’accordo che There are more things in heaven and earth, Horatio, / Than are dreamt of in your philosophy (W. Shakespeare, “Amleto”, a. I sc. V), fra le due posizioni esiste una differenza di segno, perché la realtà può essere infinitamente peggiore della nostra immaginazione o infinitamente migliore (o semplicemente maggiore) – e questa differenza non è simmetrica, così come non è simmetrica una fuga verso l’infinitamente piccolo rispetto ad una fuga verso l’infinitamente grande.

In secondo luogo, è vero che il conflitto è connaturato alla relazione, giacché nasce dalla percezione stessa della differenza (e non c’è relazione senza differenza). Ma anziché convincerci che il conflitto sia inevitabile conseguenza della relazione, dovremmo forse iniziare a pensare che il conflitto è già la relazione, relazione che se da un lato sostiene questa conflittualità come sempre possibile, la giustifica, e la ricomprende in un orizzonte comune, in un’esperienza condivisa, in un reciproco riconoscimento. In questo senso, alla posizione sartriana contrappongo la convinzione che il paradiso sono gli altri (ed in una certa misura lo abbiamo già in terra).

Allora qual è la differenza tra vivere realmente e vivere poeticamente? Ebbene, per quanto detto, non c’è differenza, le due cose non possono che essere la medesima cosa, in quanto la nostra immaginazione supera la nostra logica e la realtà le supera entrambe. L’unico modo per metterci in una relazione profonda con la realtà (quella realtà che ci riguarda e ci comprende, della quale non siamo meri spettatori ma partecipi) è dunque un modo poetico, un modo aperto ad una complessità inesauribile, uno sguardo sul mondo e sull’altro capace di sostenerne le contraddizioni e le sfumature.

In questo, la poesia è capace di rendere presente ciò che altrimenti non potrebbe essere presente (giacché appartenente ad una dimensione simbolica o trascendente e dunque non delimitabile da alcun approccio meramente tecnico).


In Atti del Convegno “La poesia, vivere nella possibilità”, Reggio Calabria, 2008.