L’espressione “alternative facts” è stata partorita il 22 gennaio 2017 in modo (direi involontariamente) geniale da Kellyanne Conway durante un’intervista con Chuck Todd per “Meet the Press”, trasmissione domenicale della NBC. Poco conta l’argomento: era uno come tanti. Anzi, non c’era nulla di speciale in quel dibattito, vista la frequenza con cui la Casa Bianca diramava attraverso ogni canale informazioni fattualmente false. In un Paese in cui fino a quel momento una sola menzogna poteva costare l’impeachment, le bugie di Trump erano così continue e ripetute che il Washington Post aveva dovuto aggiungere un nuova categoria al proprio servizio di fact-checking (il “bottomless Pinocchio”).

Nonostante la precisazione di Todd (“Look, alternative facts are not facts: they’re falsehoods”), quel giorno Conway ha però sancito ufficialmente ciò che evidentemente era già nelle cose: il primato dell’asserzione su qualunque principio di realtà condivisa.

Alla ricerca della realtà

“Qualunque principio di realtà condivisa” è una locuzione un po’ convoluta. Qui, infatti, casca l’asino. Anche se siamo portati a intuire immediatamente cosa sia “reale” o “vero”, la difficoltà a trovare dei fondamenti a questa intuizione è antica come la filosofia. Lo splendore della lingua greca riassume il problema nella parola stessa: il termine per “verità”, a-létheia (ἀλήθεια, composto da un’alfa privativa e dalla radice del verbo lanthàno, nascondere), indica che essa – “ciò che non è (più) nascosto” – non è un dato immediato ma qualcosa che può essere ottenuto solo attraverso un processo di dis-velamento.