Nella primavera del 1999 si stava per completare l’ultimo tassello del rinnovo totale dei prodotti Apple voluto da Steve Jobs: l’anno precedente era uscito l’iMac, rivoluzionario sia per architettura (un taglio netto col passato) che per forma (un’inaspettata combinazione di plastica bianca, colorata e trasparente in un formato “all in one”); la linea professionale era già stata riorganizzata con un portatile e un desktop, anche quest’ultimo profondamente rinnovato nella forma; mancava all’appello solo un portatile economico.
Dopo lo shock dell’iMac, utenti e commentatori non sapevano veramente cosa aspettarsi. La segretezza dei progetti di Apple era impenetrabile e la più piccola indiscrezione dava vita a congetture raffinatissime. Su quello che poche settimane dopo si sarebbe rivelato essere il primo iBook iniziò a circolare una voce singolare: un alimentatore “a yo-yo”.
Ma a cosa poteva servire un alimentatore a yo-yo? Doveva trattarsi, evidentemente, di un colpo di genio, di una soluzione avveniristica, inaspettata. Iniziarono le speculazioni e si convenne a un certo punto che non poteva che trattarsi di un meccanismo manuale di ricarica: un congegno, insomma, a manovella. Ecco il coniglio che Jobs aveva nel cilindro: un portatile a totale indipendenza energetica.
Ebbene, l’alimentatore a yo-yo altro non era che un trasformatore a forma di disco, provvisto di una scanalatura entro cui avvolgere il cavo senza farlo imbrogliare. Per sciogliere il mistero, la fantasia dei commentatori si era inoltrata così in là da cercare problemi che gli corrispondessero, problemi che in realtà non esistevano nemmeno. La soluzione dello yo-yo era – pur nella sua eleganza – molto semplice, concreta, quasi pedestre.
I rebus ci intrigano sin dai tempi della Sfinge: ci piace indugiare in quella zona di incipiente ma incompleta conoscenza, provare l’ebbrezza del “non sapere ancora” ma di “essere sul punto di”, sperimentare il brivido della scoperta, tanto più se raggiunta con l’astuzia o con uno slancio di inattesa creatività. Di poche cose siamo fieri come di aver previsto il futuro: una scommessa andata a segno, uno scenario cui eravamo preparati, il gusto malizioso del “l’avevo detto io”.
Ma è un brivido che ci concediamo solo per gioco oppure a posteriori, quando finalmente si verificano le circostanze attese e si scarica la tensione, perché quella zona di incertezza – a starci per forza e non per scelta – non ci piace affatto. Nella vita reale – quella delle grandi decisioni come quella delle piccole scelte di ogni giorno – gli enigmi ci disturbano terribilmente: interrompono i nostri piani, mettono in discussione i nostri assunti, rendono incerto il nostro futuro. Automaticamente ne ignoriamo la gran parte grazie a un (sacrosanto) meccanismo di economia psichica.
Alcuni però sono troppo ingombranti e reclamano la nostra attenzione. In questi casi ponderiamo, valutiamo, soppesiamo dati e possibilità alla ricerca di un outcome positivo, di un comportamento “giusto” in alternativa a uno “sbagliato”. Tutto questo ponderare, però, non è freddo amor di conoscenza: è piuttosto l’urgenza di chiudere una falla figlia di un horror vacuiche agita e rimarca un’incompletezza.
E per quanto i dati sembrino nitidi, completi, a volte persino autoevidenti, la nostra necessità di venirne a capo è così furiosa da farci prendere, facilmente, topiche spaventose (e anche l’idea di uno yo-yo elettrogeno può non sembrare affatto assurda). In breve, spesso una spiegazione sbagliata ci rassicura più di una incertezza corretta e ad essa ci radichiamo con forza, specie nei momenti di grande angoscia (personale o collettiva).
Tale è il bisogno di chiarezza che anzi estendiamo questo sforzo di “spiegazione” anche a ciò che non è necessariamente “spiegabile”: nella distinzione fra Scienze della Natura (che esplorano datie si fondano sulla ripetibilità dei fatti) e Scienze dello Spirito (che hanno invece a che fare con fatti – anche fatti “psichici” – irripetibili e incommensurabili), Dilthey usa proprio il termine “spiegare” (erklären) per le prime, mentre riserva il “comprendere” (verstehen) alle seconde, a sottolineare come non ci si possa avvicinare ai fatti dello Spirito con lo stesso atteggiamento che si riserva ai fatti della Natura (“Noi spieghiamo la natura, mentre comprendiamo la vita psichica”).
Saltato lo steccato delle Scienze della Natura, quindi, non c’è più spiegazione che tenga, non c’è somma che torni, non ci sono più “pre-visioni” ma solo, semmai, legittime ma sostanzialmente incerte aspettative.
Per muoversi in questo campo – che è anche il campo che attiene al mondo delle decisioni, quelle basate non sul conforto automatico e oggi addirittura “algoritmico” dei dati ma sulla scelta libera e responsabile dei propri atti umani – occorre una “intelligenza” diversa, un’intelligenza che non è mera analisi bensì autentico intus-legere: una relazione profonda con una realtà che mentre da un lato si approssima dall’altro sfugge sempre in qualche modo e non si lascia mai veramente abbracciare del tutto.
Per Dilthey, l’Arte è “organo di comprensione della vita”: è ponte fra l’Erlebnis individuale (l’esperienza soggettiva e immediata) e il pensiero concettuale, fra mondo interiore e mondo esterno. L’Arte (la letteratura, in questo caso) offre – come sostiene Antonio Spadaro in una recente intervista per La Repubblica – “un’intelligenza narrativa che permette di comprendere la realtà in modo superiore. È un condensato di esperienza e un orizzonte di possibilità. Senza questo si rischia di plasmare la realtà in modo sbagliato.”
L’Arte ci ricorda ostinatamente che manca sempre un tassello alla nostra esperienza, che la nostra condizione è permanentemente di incompletezza. Comprensibile, a volte, ma mai veramente spiegabile. Ci ricorda che, sempre con Spadaro, “il senso della nostra vita non è a nostra disposizione. A nostra disposizione è il senso della penuria, della mancanza. Di questo possiamo cantare, continuare a cantare e, riga dopo riga, scoprire come va a finire. Attendere la grazia cantando. Ha presente l’arte di Hopper? È un’arte di attesa. Quello che ci manca è l’orizzonte di un’attesa profonda.”
E a volte questa attesa si fa attonita e ineluttabile. A volte l’Arte ci porta su una soglia che non possiamo varcare, spiegare e nemmeno comprendere, quella, per usare le parole di Romano Guardini, del mistero: “Il problema si deve risolvere e, una volta risolto, scompare. Il mistero invece deve essere sperimentato, venerato; deve entrare a far parte della nostra vita. Un mistero che possa essere chiarito, risolto con una spiegazione non è mai stato tale (…). Il mistero esige una spiegazione: ma questa avrà il compito di indicare ove risiede il vero enigma.”
Questo articolo è stato pubblicato come editoriale di novembre 2020 sul sito di BombaCarta.