“Il delirio si comunica in giudizi. Solo là dove si opera con il  pensiero e si esprime un giudizio può insorgere un delirio. In tal senso si chiamano idee deliranti i giudizi patologicamente falsati. Il contenuto di tali giudizi può essere presente anche in modo rudimentale, ma non per questo meno efficace, quale pura coscienzialità; si è soliti allora parlare di «sensazione» il che tuttavia è un sapere oscuro.”

(K. Jaspers, Psicopatologia Generale, pag. 103) [1]

Già in queste prime righe, Jaspers lascia emergere il carattere contraddittorio ed inafferrabile del delirio nel suo misterioso declinarsi fra pensiero e “sensazione”. Affermando poco oltre con certezza che “quando il malato… ci comunica i contenuti delle sue idee deliranti, ci troviamo sempre di fronte ad un prodotto secondario” e che pertanto “è una comune formulazione di giudizio quella che ci si presenta e che si distingue da un altro giudizio normale forse solo per il suo contenuto” [2], egli sancisce in fondo che tutto ciò che vediamo del delirio non è primario, e tutto ciò che invece è primario sembra non apparirci mai.

La Wahnerleben resta la sede, l’origine ed infine anche la scena vera del delirio, e risulta confinata all’interno delle insuperabili pareti del mistero dell’Altro. Di fronte alle echte Wahnideen si consuma la resa del verstehen fenomenologico, incapace di sciogliere questa irriducibile opposizione e costretto quindi a risolversi nella sola descrizione. Ci resta però il richiamo indiretto di “qualcosa d’altro” che si consuma al di là di codeste pareti e che non è possibile ridurre al clamoroso malfunzionamento di una operazione psichica, qual è il giudizio di realtà.

Affermando che “la critica non viene distrutta”, ma “si pone al servizio del delirio” [3], Jaspers sottolinea nuovamente come il nucleo dell’esperienza delirante non sia in, ma piuttosto si esprima attraverso l’errore di critica.

Scrive A. Gaston:

Incontrato in questa dimensione, il delirio non può esaurirsi nella semplice definizione di errore incorreggibile del giudizio o di falsificazione personalistica e acritica della realtà, espressione immediata del malfunzionamento di una struttura, ma si pone come una diversa e peculiare possibilità di relazione Io-Mondo. [4]

In questa luce, il delirio si rivela due volte epifanico: lo è per il malato, cui offre una realtà nella quale egli – per oscure ragioni – si muove meglio che in quella condivisa; ma lo è anche per il medico, cui manifesta la possibilità di un rapporto Io-Mondo altro rispetto a quello che gli è familiare e che considera l’unico possibile. Si apre una diversa relazione fra idios e koinòs che sospinge il de-lirante lontano dal solco comune delle interpretazioni condivise per promettergli un mondo in fin dei conti più autentico: è del resto il suo un allontanarsi dal comune “si-dice”, dalla realtà quale la si-ritiene e con la quale il medico pigro – che si limita a dare un giudizio sul contenuto del suo delirio –  lo confronta per porre diagnosi.

Tralasciamo per un attimo lo strumento fenomenologico, per sua stessa definizione incapace di penetrare l’alienità dell’esperienza delirante dell’individuo, per abbandonarci ad alcune suggestioni.

Abbiamo riconosciuto come primo tratto distintivo una mutata relazione fra idios e koinòs, in cui la soggettività assume contorni nuovi e si articola con l’oggetto in una figura complessa che ne confonde gli stessi confini. Le attribuzioni dei significati si concentrano sul polo soggettivo, rendendo il delirante protagonista – o almeno partecipe – di ogni evento. Al mondo quale si dà si sostituisce gradualmente il mondo vissuto dal soggetto. Chi abita la realtà condivisa non coglie che l’immediato darsi dei significati deliranti non è meno valido di quei dati irriducibili che non necessitano di verifica nella vita comune. Tale è la loro validità che la conferma è inutile e, anzi, non ne rappresenta una verifica (“…una malata dice: È tanto sicuro e chiaro che tutte le percezioni contrarie non mi lasciano dubbi” [5]).

Il delirio rappresenta così il ripiegamento dal mondo del koinòs ad uno in cui predomina l’idios ed in cui si rivela – nella particolare modalità attraverso la quale si articolano irrealtà e vissuti – un forte elemento tragico, nel senso che di questo termine riconosciamo in Aristotele: “Tragedia è dunque imitazione di un’azione seria e compiuta… di persone che agiscono e non tramite una narrazione, la quale per mezzo di pietà e paura porta a compimento la depurazione di siffatte emozioni” [6]. Egli aggiunge più avanti: “Lo storico e il poeta non si distinguono nel dire in versi o senza versi… si distinguono invece in questo: l’uno dice le cose avvenute, l’altro quali possono avvenire… la poesia dice piuttosto gli universali, la storia i particolari” [7].

Non è pertanto il contenuto a distinguere la tragedia (o il delirio) dalla realtà: tanto nell’una come nell’altro esso può essere – e spesso è – “credibile”: solo, è “da non credersi”. Nella tragedia come nel delirio, il soggetto rifugge dalla storia, che è storia-di-tutti, per dispiegarsi in una trama, che è trama per sé. Visto nella prospettiva della logica, l’errore di giudizio appare incomprensibile; ma se è col tragico che ci confrontiamo, quella che dobbiamo percorrere è una strada diversa.

Per compiere questo passaggio bisogna ricordare che la conoscenza della realtà non passa necessariamente attraverso la logica. Non ci è difficile trovare nelle nostre stesse radici il germe di un diverso atteggiamento; scrive Galimberti a proposito del mito:

Termine greco che, nell’ambito di quella cultura, significa ora «parola», «notizia», «novella»… ora la cosa stessa [«Rimetti la cosa (μύθον) agli dei»]… Successivamente, con la comparsa di un altro tipo di racconto o discorso chiamato λόγος caratterizzato dall’argomentazione razionale, la narrazione mitica assume il carattere fabulatorio di «leggenda», «favola». [8]

Il mythos, atto conoscitivo principe, viene cacciato dal logos, il quale, quasi un fuoco prometeico, illumina la realtà con la tagliente luce dell’erklären. All’atteggiamento “mitocentrico” non resta che occupare silenziosamente gli spazi che il logos risparmia, recuperando in essi tutta la propria preminenza: gli spazi – niente affatto secondari nella nostra vita – della rappresentazione, del simbolo, della tragedia ed, infine, riteniamo, del delirio

Proseguendo la lettura di Galimberti, ravvisiamo delle inattese concordanze con quanto detto finora: “Il mito ha in comune con il logos l’intento di conoscere e spiegare il mondo, per cui il passaggio dall’uno all’altro non è tanto un passaggio dalla favola alla verità, ma tra due diversi modi di perseguire quell’intento… La narrazione mitica vive quindi la soggettivazione della realtà esterna e l’oggettivazione del mondo interiore… In questo contesto… l’esclusione della soggettività e della manipolazione dell’interprete segna il passaggio dal mito al logos, dalla descrizione delle cose per come sono vissute da chi le narra, alla loro descrizione per come si danno” [9].

In altri autori scorgiamo ulteriori affinità: per Lévy-Bruhl il mondo del mito “è reale, e perfino più profondamente vero di quello dell’esperienza quotidiana o corrente. È anch’esso oggetto di esperienza… per cui l’esistenza di questa realtà soprannaturale non è «dedotta», perché è immediatamente «data»” [10]. Vogliamo a questo punto arditamente usare ai nostri scopi anche l’affermazione di Cassirer quando afferma: “il sostrato reale del mito non è un sostrato di pensiero, ma di sentimento. Il mito e la religione primitiva non sono certo del tutto incoerenti, né interamente privi di senso e di ragione, ma la loro coerenza proviene molto di più da un’unità sentimentale che da regole logiche” [11].

Abbiamo raccolto un indizio, ma ancora ci resta da capire come e perché possa verificarsi un tale scivolamento. Cercheremo di rispondere innanzitutto al quesito del come.

Dopo quanto detto possiamo intendere l’atteggiamento conoscitivo della realtà attraverso il mythos come una qualità intrinseca dell’uomo, primitiva rispetto a quella che si fonda invece sul logos. Essa, naturalmente presente in tutti noi, si fa compartecipe dell’attività psichica in un equilibrio che non turbi la preminenza della logica ma che ne completi la funzione. Quando si verificano alcune condizioni – cercheremo di capirle in seguito – la preminenza della logica cede, e si fa avanti un modello più arcaico e più adeguato alla situazione.

Questo concetto ha delle stringenti analogie con altri, seppure espressi in contesti affatto diversi ed in altra forma. Scrive ad esempio Freud già nel 1915: “la situazione… può essere descritta soltanto dicendo che ogni fase evolutiva precedente continua a sussistere accanto alla fase successiva a cui ha dato luogo… Al profano le cosiddette malattie mentali suscitano certamente l’impressione di una distruzione della vita psichica e intellettuale. In realtà il processo distruttivo colpisce solo acquisizioni e fasi evolutive recenti. L’essenza della malattia mentale risiede in un ritorno a condizioni anteriori di vita affettiva e di funzionamento psichico” [12].

Arieti spiega invece così la scelta del termine “paleologica” per descrivere il pensiero dello schizofrenico, sottolineando anche in questo caso come anziché di una semplice destrutturazione e distruzione di funzioni sia più opportuno parlare di regressione verso modelli primitivi più affidabili (la riportiamo come utile analogia al nostro discorso):

Lévy-Bruhl usò il termine «prelogico» per il metodo di pensiero che precedette quello aristotelico. Von Domarus usò il termine «paralogico» che è un’espressione usata di solito dai logici di professione. Io preferisco non usare il termine «prelogico» poiché… considero anche il pensiero paleologico come un pensiero organizzato o logico. Inoltre non mi piace il termine «paralogico» poiché questo tipo di logica non è patologica in sé, ma è una forma arcaica di logica. Ho quindi denominato questa forma di logica «paleologica», che significa logica antica. [13]

La coesistenza di due diverse modalità conoscitive, lungi dal restare una mera speculazione metafisica, trova interessanti corrispondenze nella moderna neurofisiologia. Il sistema nervoso sembra organizzato in modo da offrire diverse possibili elaborazioni dell’informazione, e ciò trova riscontro non solo nella natura delle vie neuronali, ma addirittura nella struttura stessa dell’encefalo. Il principio della lateralizzazione suggerisce una sorta di possibile presupposto neurofisiologico a quanto detto, sostenendo come un emisfero accentri i processi logico-grammaticali, razionali, astratti e analitici, mentre l’altro faccia lo stesso con quelli intuitivi, concreti, sintetici, diffusi ed olistici.

L’esperienza umana, che – per quanto si voglia farcelo credere – non è (solo) il prodotto di una logica, sembra scaturire proprio da queste antinomie (analisi-sintesi, razionalità-intuizione, astratto-concreto, focalizzato-diffuso etc.). Dove il giusto temperarsi degli elementi di ogni coppia non si verifica più, si apre ad una delle due modalità la possibilità del predominio.

Resta da affrontare l’enigma del perché in un individuo, ad un certo punto, avvenga una serie di trasformazioni che, per quanto talora inapparenti, implicano una totale e sostanziale ristrutturazione del rapporto fra soggettività ed oggettività.

Arieti spiega così questo arretramento (sempre riferendosi alla schizofrenia): “Qui basti sottolineare nuovamente perché il paziente abbandoni il modo di pensare aristotelico e adotti un tipo primitivo di pensiero. Egli fa ciò allo scopo di fuggire l’ansietà; fino a quando interpreta la realtà con la logica aristotelica, è consapevole della verità intollerabile e può nascere uno stato di panico… Una volta che il malato vede le cose in modo diverso, con una nuova logica, nessuna persuasione aristotelica lo convincerà che ha torto. Egli ha ragione, secondo la propria logica” [14]. Ciò non è in fondo dissimile da quanto Freud, che abbiamo citato insieme ad Arieti, sostiene a proposito invece delle nevrosi.

Affronteremo invece questo discorso ancora a partire dal senso del mito e del suo carattere ierofanico: il mito compare, in fondo, di fronte al sacro e al numinoso.

Possiamo immaginare che la realtà del koinòs si rivesta per il delirante dei caratteri del numinoso, almeno nel senso che Otto e Jung danno a questo termine (“Il numinoso si sottrae alla sfera del razionale, ed è un arreton, un ineffabile, in quanto è assolutamente inaccessibile alla comprensione concettuale” [15]. - “numinoso”; “Questa energia afferra e domina il soggetto umano, che ne è sempre la vittima piuttosto che il creatore” [16]).

Essa, come il numinoso, è una condizione del soggetto indipendente dalla sua volontà, prodotta a prescindere da lui e di fronte alla quale egli si sente “in balia di”; questa situazione si colora delle tinte del terribile. Ma essa sfugge anche alla conoscenza, nascosta dietro il delirio, rendendosi attraverso un clamoroso hysteron-proteron persino aprioritaria rispetto al pensiero ed influenzando il soggetto e la sua psicopatologia solo attraverso gli echi lontani che giungono sino a lui passando per vie che concettuali non diventano mai.


Bibliografia

[1] Jaspers K.: “Psicopatologia Generale”, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, pag. 103, 1964.
[2] Jaspers K., ibid., pag. 104.
[3] Jaspers K., ibid., pag. 105.
[4] Gaston A., “Genealogia dell’alienazione”, Feltrinelli, Milano, pag. 142, 1987.
[5] Jaspers K., ibid., pag. 107.
[6] Aristotele, “Poetica”, I, 6.
[7] Aristotele, ibid., I, 9.
[8] Galimberti U., “Dizionario di Psicologia”, UTET, Torino, 1992, pagg. 584-586.
[9] Galimberti, ibid.
[10] Lévy-Bruhl L., cit. in Galimberti U., “Dizionario di Psicologia”, UTET, Torino, 1992, pagg. 584-586.
[11] Cassirer E., cit. in Galimberti U., “Dizionario di Psicologia”, UTET, Torino, 1992, pagg. 584-586.
[12] Freud S., “Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte” (1915), in “Opere”, VIII, 133, Boringhieri, Torino.
[13] Arieti S., “Interpretazione della schizofrenia”, Feltrinelli, Milano, 1963, pag. 172n.
[14] Arieti S., ibid., pag. 172.
[15] Otto R., cit. in  Galimberti U., “Dizionario di Psicologia”, UTET, Torino, 1992, pag. 620.
[16] Jung C. G., cit. in  Galimberti U., “Dizionario di Psicologia”, UTET, Torino, 1992, pag. 620.


Originariamente pubblicato su Comprendre, 11/2001.