In una conferenza di una quindicina d’anni fa a Roma, Tommaso Labranca osservava con un pizzico di provocazione come dagli Anni Novanta in poi (almeno sul piano della moda, del costume e della cultura popolare) non fosse cambiato più nulla. Le minigonne, la televisione in bianco e nero, i vitelloni di via Veneto degli Anni Sessanta; i pantaloni a zampa d’elefante, le montature spesse degli occhiali, i parka e le contestazioni dei Settanta; le spalline imbottite e i capelli cotonati, la musica disimpegnata, l’“edonismo reaganiano” e la TV commerciale degli Ottanta: hanno tutti lasciato il posto gli uni agli altri e poi, nei decenni successivi, a una progressiva – se accarezzata da uno sguardo fugace – omogenizzazione visuale.
In assenza di contesto, un film “blockbuster” girato ieri potrebbe essere indistinguibile da uno di dieci o venti anni fa: pressoché immutate le scelte fotografiche e di regia; consolidate le strutture narrative in schemi ripetitivi ma di sperimentato appeal; effetti speciali il cui perfezionamento è percepibile solo nei più minuti dettagli; persino gli attori – complici il trend salutista e qualche più o meno fortunato ritocchino – sembrano aver smesso di invecchiare.
Sembrerebbe che negli ultimi trent’anni non sia successo effettivamente nulla di particolarmente rilevante, almeno sul piano culturale. Eppure, al contrario, proprio questi ultimi sono stati i decenni in cui alcune tecnologie sono esplose o hanno subito accelerazioni esponenziali.