A mente fredda e con un po’ di pazienza, proviamo a fare un’analisi serena della Zangrilleide usandola per riflettere più in generale sulla gestione del Covid. A febbraio (una vita fa) scrissi un thread su Burioni.
Il thread non mi sembra invecchiato e anzi molti principi si applicano pari pari a Zangrillo. Il che mi permette di non insistere troppo su quanto i modi della comunicazione siano non meno importanti dei suoi contenuti.
Entriamo però nello specifico su alcuni punti.
Primo: il “clinicamente morto”
Invito chiunque a spiegarmi la frase “il virus è clinicamente morto”. Non voglio sapere cosa “intendesse” Zangrillo: chiedo una definizione da vocabolario. Un medico che vada in televisione ammantato della propria autorevolezza con l’intenzione di orientare i comportamenti del cittadino non può permettersi il lusso della fraintendibilità (ah, non troverete definizione perché la frase non ha – clinicamente – senso).
Sulla comunicazione medica, per non ripetermi troppo, mi limito a Jaspers, “Il medico nell’eta della tecnica”, Cortina, pag. 6.
Ciò che il malato pensa della sua malattia, ciò che si aspetta, teme, augura e spera, tutto questo sembra essere un fattore che incide sul decorso stesso della malattia. Il malato interpreta a suo modo quanto il medico dice e fa. Il medico non ha solo la responsabilità dell’esattezza delle sue affermazioni, ma anche quella del loro effetto sul malato, sulla sua situazione psichica turbata e antirazionale. Il medico non può affatto condividere con il malato una condizione di aperta razionalità.
Su ciò che Zangrillo “intendesse” non mi soffermo (altro thread? ora è off topic). Sottolineo però che la dichiarazione cade in una logica binaria (catastrofe/tutto bene) e che oggi non ci possiamo permettere queste semplificazioni. In questo, Zangrillo appartiene alla stessa scuola di Burioni e ha, a mio modesto parere, la stessa responsabilità morale su comportamenti irresponsabili che le sue parole – intese o fraintese – possono aver incoraggiato.
Secondo: il mito dell’asintomatico.
Il termine “asintomatico” non descrive un sano, non un malato e, in certi casi, nemmeno un asintomatico. L’uso disinvolto che se ne fa è fonte di molta, molta confusione. Dal punto di vista clinico tanto caro a Zangrillo, l’asintomatico potrebbe essere un “portatore sano” e quindi non richiedere le sue attenzioni. Oppure potrebbe incubare, e non richiedere ancora le sue attenzioni. Oppure potrebbe essere paucisintomatico, quindi affetto da una forma frusta, subclinica o anomala, a seconda di quali sintomi siano attualmente definiti come suggestivi della patologia in oggetto ed essere per questo di estremo interesse clinico.
Tutto ciò ci ricorda che i concetti di salute e malattia sono tutt’altro che univoci. Anche su questo non indugio per motivi di spazio e rinvio al consueto “Dove si nasconde la salute” di Gadamer, da me già più volte citato.
Dal punto di vista della sanità pubblica, al contrario, un asintomatico (che è spesso un vettore) non solo non è meno problematico di un malato, ma lo è assai di più perché non (clinicamente) visibile. E clinicamente molto incisivo (anche se non nell’immediato), per cui dire che un virus è “clinicamente morto” quando c’è una pandemia in atto è semplicemente un’idiozia. Ce lo ricorda anche una celebre nota storica.
Terzo: l’equilibrio.
L’equilibrio è il grande assente. L’equilibrio richiede alcuni atteggiamenti.
- Contezza del rischio senza drammatizzazione e senza minimizzazione.
- Una comunicazione “efficace”, non “vera”.
- Una capacità sintetica fra diverse chiavi di lettura .(quella clinica, quella epidemiologica, quella virologica)
- La capacità di elaborare delle risposte che tengano presenti le chiavi suddette e il loro impatto su un sistema ancora più complesso che è il Paese.
- La capacità quindi anche di fare compromessi, di accettare risultati imperfetti ma efficaci rinunciando a soluzioni perfette solo entro la propria bolla di esistenza.
- La rinuncia alla retorica continua che sembra accompagnarci anche nella decisione più banale e il coraggio di ammettere alcune cose:
- Che del Covid sappiamo più di prima ma sempre poco.
- Che tutto funziona ma nulla da solo risolve.
- Che in attesa di un vaccino si andrà avanti per lunghi, faticosi, dolorosi e del tutto imprecisi compromessi.
- Che l’aderenza della popolazione alle norme di contenimento è fondamentale.
- Che NON abbiamo tutto sotto controllo, il che non ci impedisce di operare con la massima saggezza possibile per governare la situazione come possiamo.
In assenza di questa saggezza, si ricade automaticamente nella scaramanzia – e la fede nella propria sola fettina di scienza, nella stretta visuale del proprio parabrezza, non è diversa in questo da una zampa di coniglio.
In Italia, IMHO e fino a prova contraria, l’unica persona che (pubblicamente) si è trovata all’incrocio tra epidemiologia, sanità pubblica, infettivologia e clinica e ha saputo ragionare, prevedere e decidere è Crisanti. (Senza nulla togliere ad altri illustri colleghi che stanno facendo continua e paziente opera di chiarezza – Galli etc. – e che lavorano lontano dai riflettori).
E dovremmmo forse interrogarci sull’anelasticità di un sistema che grippa per un virus che non ha la trasmissibilità del morbillo, i tempi di incubazione dell’AIDS e/o la mortalità del vaiolo.
Perché se – Dio non voglia – dovessimo trovarci in futuro di fronte a una di queste situazioni, non so cosa proveremo tornando con la mente a certi bisticci televisivi.
Post Scriptum
Cosa avrei detto io:
“Le TI, a dispetto di una presenza sostenuta del virus nella popolazione, sono abbastanza libere. Possiamo FORSE dedurne che le pratiche di igiene pubblica (mascherine, distanza, lavaggio delle mani) stiano contribuendo a quadri clinici più tenui, FORSE per via di una minor carica infettiva durante la TRASMISSIONE (attenzione: non nell’ospite) per cui sono ottimista che continuando così si possa mantenere l’espressione clinica del virus entro parametri sostenibili”
- “Il virus è morto” → faccio il cazzo che mi pare
- “Il virus c’è sempre ma abbiamo meno moribondi” → cribbio ma vuoi vedere che la mascherina funziona?