In fin dei conti, se non fossi stato arrestato dalla polizia turca sarei stato arrestato dalla polizia greca. Non avevo scelta: potevo fare solo come mi diceva lui, Harper. È successo tutto per colpa sua.

Tokapi di Eric Ambler si apre con una giustificazione: nulla di ciò che leggeremo nelle pagine seguenti è stato voluto o deciso dal protagonista. Arthur Simpson è in balia degli eventi, della sfortuna, dei capricci di alcuni e degli abusi di altri – ed è, di conseguenza, innocente. Eppure il romanzo lo porta ad attraversare confini militarizzati, contrabbandare armi, mentire alla giustizia di (almeno) due paesi e partecipare in combutta con una gang internazionale a un furto clamoroso. È in maldestro equilibrio su una fune che oscilla pericolosamente, circondato da opzioni terribili e scelte tutte sbagliate.

Arthur vive suo malgrado un’avventura: un’avventura da cui vuole uscire prima possibile – ma pur sempre un’avventura. E ne uscirà, come si intuisce dalle prime righe del romanzo, in un modo assolutamente stupefacente: tale e quale a come era prima.

Letteratura e cinema attingono a schemi ricorrenti il più comune dei quali è un certo “arco” della storia: un inizio (e un personaggio), un problema (e uno sviluppo), un finale (e un cambiamento). Senza questo movimento la lettura o la visione ci lasciano freddi o si limitano a mero intrattenimento. Lo schema è talmente radicato che i pochissimi personaggi che vi sfuggono ci lasciano, spesso, interdetti. Perché dovremmo affezionarci a protagonisti che “non” cambiano? Cui, alla fine, “non succede” niente, nonostante siano loro “capitate” tante cose? Non sono forse essi dei “mediocri” nel peggior senso del termine, cioè persone poco interessanti?

Eppure sono proprio i mediocri che un magistrale F. Murray Abraham-Salieri celebra nella sua “antibenedizione” al termine di Amadeus (Milos Forman, 1984):

Il vostro Dio misericordioso… ha distrutto la sua creatura, piuttosto che lasciare che un mediocre dividesse una piccola parte della sua gloria. Ha ucciso Mozart. E mi ha lasciato vivere per torturarmi. 32 anni di torture. 32 anni in cui mi guardo diventare estinto! La mia musica… sempre più debole. Sempre più debole… al punto che nessuno la suona più. Mentre la sua… (…) Parlo per tutti i mediocri del mondo. Sono il loro campione. Il loro santo patrono. Mediocri, ovunque voi siate… vi assolvo. Siete assolti… Siete assolti… Siete assolti… Siete tutti assolti…

I mediocri si sono confrontati con il brivido dell’avventura (come Arthur), con il genio (come il Salieri di Forman), con l’“esperienza trasformativa” – e non si sono lasciati trasformare. I mediocri a volte non lo sono affatto, come il Barney di Mordecai Richler, che – brillante, arguto, pungente – fino all’ultimo non recede dalle proprie convinzioni fino a spegnersi lentamente con esse, appena sfiorato verso la fine dall’ombra di un dubbio, quando, tutto sommato, non conta più nulla.

Non insisteremo troppo su quanto questi personaggi – Arthur, Salieri, Barney – siano rimasti veramente impermeabili nel proprio intimo alla trasformazione: quel che ci interessa è che, a dispetto di eventi rocamboleschi, il loro “arco” appare più come un cerchio, un ritorno al punto di partenza. Ci ricordano, in fin dei conti, che un’avventura non basta da sola a cambiare il nostro punto di vista, né può farlo una spiccata intelligenza o il confronto con persone o eventi eccezionali. Ci ricordano anche che questo cambiamento non è affatto obbligatorio ed è anzi molto oneroso, tanto che lo stesso Jung spiegava che il cammino verso l’individuazione è così doloroso che, se non fossimo costretti, nessuno di noi lo intraprenderebbe. Ci perdonano un po’ le nostre resistenze, il nostro desiderio di rimanere come siamo, di restarcene a casa come tutti gli Hobbit della Contea (eccezion fatta per un certo sparuto gruppo di troublemakers) e, in fin dei conti, la nostra imperfettissima umanità.

Questi esempi descrivono personaggi immobili al centro di eventi vorticosi e dimostrano come le dinamiche esterne non necessariamente risuonino con quelle interne. È valido però anche il discorso opposto: non necessariamente condizioni immobili, eventi stagnanti, corrispondono a dinamiche interne altrettanto immobili o stagnanti.

In un colloquio con Steven Levy, Steve Jobs disse una volta:

I’m a big believer in boredom. Boredom allows one to indulge in curiosity and out of curiosity comes everything.

Occorre allora evitare subito un fraintendimento: non si vuole qui fare il consueto, sempre valido ma a volte un po’ consolatorio, elogio della noia.

La stagnazione, per essere reale, deve essere percepita come tale – interna o esterna che sia: una ripetizione sterile, un ritorno monotono, un futuro che non si avvicina mai. Un cambiamento che non arriva. Se Hitchcock diceva che un film è la vita senza le parti noiose, parliamo qui proprio di quegli avanzi, di quella pellicola rimasta sul pavimento della sala di montaggio.

In Lawrence d’Arabia, Omar Sharif è appena un puntino all’orizzonte. In una sequenza carica di tensione lo vediamo avvicinarsi al pozzo dove si sta dissetando Peter O’Toole. Più passa il tempo più la tensione cresce: lo vediamo diventare una sagoma, poi una figura, quindi iniziamo a sentire il calpestio del cammello, infine vediamo il suo volto – ma non ci vengono fatti sconti: ogni istante di attesa ci viene imposto come è imposto a Lawrence. La sequenza è lunga: non troppo, non troppo poco. David Lean spiega che occorre portare lo spettatore fino all’estremo limite della noia – e fermarsi un momento prima.

Ma  fermarsi prima: tale è il potere della noia che essa è un tabù, un luogo-limite (varcato solo in modo sacrilego da certi avventurosi – e spesso cervellotici, per non dire sadici – registi sperimentali).

La noia è sgradevole.

Un’esperienza comune, in un percorso analitico (soprattutto se lungo), è proprio quella della noia e/o della stagnazione: la sensazione di ripetere sempre le stesse cose, di rimanere sempre allo stesso punto, di tornare e tornare su questioni affrontate senza sviluppi. È un’esperienza frustrante per il paziente e insidiosa per l’analista, che deve avere la pazienza di aspettare e la tenacia nel cogliere – se mi si consente il paradosso – ogni ripetizione come irripetibile, come una nuova visita in un vecchio posto, osservato quindi sempre in un modo leggermente diverso dal precedente, nell’attesa che emerga – come di solito avviene, spesso con un “clic” inatteso – ciò che si sta silenziosamente elaborando nell’ombra.

Come le dinamiche esterne possono lasciarci immobili, la stagnazione esterna può corrispondere a movimenti interni non necessariamente visibili : non siamo mai interamente presenti a noi stessi (lo siamo anzi sempre a malapena) e sotto una superficie placida e immota qualcosa si muove sempre . Non ce ne accorgiamo, non sappiamo di cosa si tratta e non sappiamo nemmeno quando produrrà i suoi frutti – ma anch’essa è un’esperienza e anch’essa in qualche maniera ci trasforma, che lo vogliamo o no, che resistiamo o meno, in modo più o meno evidente e diretto.

Probabilmente non ne coglieremo mai i nessi diretti, ma non tutto ciò che avviene è visibile. Del resto, come ricorda Eraclito, φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ: la natura ama nascondersi.


Pubblicato in origine su BombaMag n. 2 e su BombaCarta.