Medicina e dati

31 Marzo 2020Twitter threads, 🇮🇹 Italiano

Volevo scrivere un furibondo rant su un fastidioso scambio avuto alcuni giorni fa, ma ne stava uscendo un saggio di filosofia della medicina. Allora racconto solo un fattarello. Molti anni fa, mi facevo i fatti miei in stanza medici; arrivano due giovani specializzandi con un pacco di cartelle e iniziano a sfogliare. Devono scrivere le diagnosi.

–Depresso da due settimane?
–Sì
–Insonnia o ipersonnia?
–No
–A quanti siamo?
–3
–Vabbè, dai, dorme poco: 4

E fu così che gira e rigira i criteri per il disturbo x vennero soddisfatti (perché il paziente, sennò, non entrava in nessuna casella). Il punto che mi preme è che i “dati” non sono un fenomeno naturale che ci cade fra le braccia: vanno raccolti, puliti, interpretati. A volte vanno anche cercati sulla base di una ipotesi o di un’intuizione. E, sempre, rappresentano una descrizione aggregata (e quindi verosimile ma sempre falsa) delle mille singolarità che descrivono.

Tutto quello che è prima dei dati, che è dopo (l’uso, le interpretazioni, le strategie) e a volte anche durante (riguardo tutti i bias e i pregiudizi) è molto, molto umano e incerto. Non c’è nulla di male in questo, salvo quando ce lo dimentichiamo. Perché a quel punto si innescano degli automatismi cui obbediamo ciecamente ma che NON sono fatti per risolvere problemi mal posti. Quindi sbagliano.

La medicina usa i dati, ma non è fatta dai dati.


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Arte e quarantena

24 Marzo 2020🇮🇹 Italiano

Nel 1995 usciva al cinema “Hello Denise” (“Denise calls up”), un film passato troppo inosservato sull’impatto che hanno avuto i cellulari sulla vita quotidiana americana. I protagonisti si chiamano l’un l’altro programmando incontri che – per imprevisti, rinunce all’ultimo momento, contrattempi – finiscono per essere sempre rinviati.

La reperibilità telefonica “permanente” anziché facilitare la relazione sembra quindi renderla più difficile: tutti siamo “a portata di mano” e questo non solo ci basta ma è quasi preferibile alle incognite e alle frizioni dell’incontro.

Attraverso una chiave ironica e una scrittura vivace, il film descrive un passaggio epocale che sarà vissuto nuovamente dalla generazione successiva con l’arrivo dei social. Ma più che facilitata/ostacolata, sarebbe corretto dire che la relazione si trasforma coi tempi e con le tecnologie a disposizione.

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Basaglia e limoni

21 Marzo 2020Twitter threads, 🇮🇹 Italiano

Ci sono due pagine di Basaglia che mi tornano in mente spesso in questi giorni. Sembra che non c’entrino nulla, ma solo perché non è immediatamente ovvio quello che dicono. Allego e spiego:

Vorrei che mi dicesse cosa vuol dire “tecnica brasiliana”
Non lo so cosa vuol dire “tecnica brasiliana”. È lei che dovrebbe cercare di scoprirla, lavorando e studiando giorno per giorno. Lei non è soddisfatta, e questo va bene perché lei attraverso il suo lavoro può trovare un significato per la sua vita, un’appartenenza al suo paese. Lei ha studiato e probabilmente ha vissuto la sua identificazione nella professione in maniera astorica. Non so se lei sia psicologa, assistente sociale o psichiatra. Comunque, nel periodo degli studi lei ha incorporato elementi “neutri”, per così dire, mentre invece tutti questi elementi, tutti questi saperi, fanno parte di una storia. Lei deve incontrare questi elementi giorno per giorno nel suo lavoro. Mi permetto di parlarle così perché ieri, nel centro di salute, mentre discutevamo, io avevo la sensazione che lì stesse succedendo qualcosa che io non riuscivo a cogliere, e mi sentivo sfiduciato perché non riuscivo a capire la realtà che avevo di fronte. Poi l’ho capita, ma solo quando sono entrato nella storia della creazione di quel centro.

Nel ’79 Basaglia viene invitato in Brasile per un ciclo di incontri (registrati nelle Conferenze brasiliane, che è – a questo punto – il mio consiglio di lettura di oggi). Le poche righe evidenziate valgono da sole tutto il libro. I brasiliani chiedono come si possa “importare” il modello italiano e Basaglia distrugge subito le loro aspettative: non si può.

Anche se permeato dall’esperienza politica di quegli anni, rimane come un zoccolo duro lo spirito del fenomenologo. A livello sociale, come a quello individuale, le soluzioni non sono mai teoriche: devono integrarsi e “comprendere” la realtà in cui operano. In psichiatria non esistono “a priori”, la soggettività del paziente è “irriducibile” a schemi predeterminati.

Perché mi viene in mente adesso? Perché stiamo passando tutti un momento di grande confusione e vedo molte proposte su come affrontarlo. Sono tutte valide (e anzi grazie a chi le propone) – e allo stesso tempo nessuna. Alla fine sta a noi capire cosa può funzionare per noi e come, riconoscendo le nostre specifiche esigenze, accettando le nostre inquietudini come naturali, anche la nostra fatica, e – possibilmente – attivando il nostro spirito creativo.

Questo non vuol dire che sia facile, anzi, tutt’altro. Però è anche l’atteggiamento che ci aiuta a trasformare la crisi in opportunità. When life gives you lemons…


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Decisioni

18 Marzo 2020Twitter threads, 🇮🇹 Italiano

Un tweet letto ieri mi ha fatto pensare a cosa significhi “fare la scelta giusta”, in particolare in un periodo come questo. Retrospettivamente, le decisioni sembrano sempre facili, ma cadiamo in due generi opposti di inganno.

Nel primo ci ostiniamo a rivedere la situazione con gli occhi di allora, trascurando i dati di realtà che sono emersi nel frattempo, per difendere una decisione presa. E anche allora, probabilmente, siamo stati troppo deterministi. O troppo “certi”.

Nel secondo, più frequente, facciamo il contrario e dimetichiamo quanto al momento della decisione le cose che ora sono evidenti non fossero chiare. Vediamo quindi la situazione solo con gli occhi di oggi.

In entrambi i casi, il giudizio retrospettivo si basa su una sola delle possibili realtà che sono conseguite al nostro gesto. Non abbiamo mai la controprova definitiva su “cosa sarebbe successo se” (ma immaginiamo comunque di saperlo). In entrambe le situazioni ci separiamo dal sentimento di incertezza, di sospensione, anche di angoscia, che caratterizza il “non sapere” cosa ci aspetta. La de-cisione (“taglio”) è un momento turbolento e complesso che chiama in causa libertà, responsabilità, irrevocabilità. L'”actus humanus” è l’atto decisionale “libero e responsabile”. In pratica, proprio nel “decidere” (e nell'”uc-cidere” le tutte le possibilità tranne una) esprimiamo la nostra “umanità” fino in fondo. (altro…)