Vita nella (e dalla) stagnazione

25 Maggio 2020Articoli, 🇮🇹 Italiano

La quarantena ci ha esposto a un’esperienza inusuale, difficile da definire, in cui i concetti di normalità e di anormalità si confondono improvvisamente. Degli ultimi due mesi ciascuno ha probabilmente un ricordo diverso: per alcuni — lavoratori “essenziali” — sono state giornate intense e stressanti; per altri, di malattia o di lutto; la maggior parte del Paese ha vissuto però in una condizione di sospensione, di attesa, per certi versi di reclusione, dai tratti surreali.

Mentre strade e piazze riprendono ad animarsi per l’auspicata “ripartenza”, può rivelarsi salutare rielaborare l’esperienza di questa forzata e necessaria reclusione domestica da tutti accettata nella speranza di mettersi al riparo da una tempesta invisibile la cui forza era rappresentata solo da grafici, elenchi, bollettini: comunicazioni fredde di un pericolo — per chi non l’abbia affrontato in prima persona — astratto e impalpabile.

Il “dentro casa”, spazio tradizionalmente destinato al riposo e alla famiglia, si è trasformato in luogo totale, esclusivo, scompaginando i nostri equilibri con l’esterno ma soprattutto con l’interno. Molti di noi, soprattutto i più “estroversi” (giacché per gli “introversi” la quarantena è stata una condizione quasi di grazia), si sono trovati inaspettatamente a confronto con una dimensione immobile, bloccata, con un panorama che da amichevole diventa inaspettatamente ostile.

Questa condizione è definibile solo “per sottrazione”, in virtù di ciò che manca, della libertà persa, della disponibilità perduta. Esaurito il brivido del telelavoro in pantaloni corti o di spericolati esercizi di panificazione casalinga, si fa via via largo la noia. E se già non fosse abbastanza fastidioso questo sentimento, occorre anche subire consigli (e rimproveri) sulla mancata capacità di stare con se stessi, di approfittare per migliorare la propria cultura, di trovarsi degli hobbies. In buona sostanza di fare qualcosa e non rompere troppo le scatole. (altro…)

Dinamica della stagnazione

12 Maggio 2020🇮🇹 Italiano

In fin dei conti, se non fossi stato arrestato dalla polizia turca sarei stato arrestato dalla polizia greca. Non avevo scelta: potevo fare solo come mi diceva lui, Harper. È successo tutto per colpa sua.

Tokapi di Eric Ambler si apre con una giustificazione: nulla di ciò che leggeremo nelle pagine seguenti è stato voluto o deciso dal protagonista. Arthur Simpson è in balia degli eventi, della sfortuna, dei capricci di alcuni e degli abusi di altri – ed è, di conseguenza, innocente. Eppure il romanzo lo porta ad attraversare confini militarizzati, contrabbandare armi, mentire alla giustizia di (almeno) due paesi e partecipare in combutta con una gang internazionale a un furto clamoroso. È in maldestro equilibrio su una fune che oscilla pericolosamente, circondato da opzioni terribili e scelte tutte sbagliate.

Arthur vive suo malgrado un’avventura: un’avventura da cui vuole uscire prima possibile – ma pur sempre un’avventura. E ne uscirà, come si intuisce dalle prime righe del romanzo, in un modo assolutamente stupefacente: tale e quale a come era prima.

Letteratura e cinema attingono a schemi ricorrenti il più comune dei quali è un certo “arco” della storia: un inizio (e un personaggio), un problema (e uno sviluppo), un finale (e un cambiamento). Senza questo movimento la lettura o la visione ci lasciano freddi o si limitano a mero intrattenimento. Lo schema è talmente radicato che i pochissimi personaggi che vi sfuggono ci lasciano, spesso, interdetti. Perché dovremmo affezionarci a protagonisti che “non” cambiano? Cui, alla fine, “non succede” niente, nonostante siano loro “capitate” tante cose? Non sono forse essi dei “mediocri” nel peggior senso del termine, cioè persone poco interessanti?

Eppure sono proprio i mediocri che un magistrale F. Murray Abraham-Salieri celebra nella sua “antibenedizione” al termine di Amadeus (Milos Forman, 1984):

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