La mattina del 7 gennaio 2013, verso le cinque, mio padre Alberto Gaston ci ha lasciati improvvisamente.
Quando mi regalò la prima copia del suo libro più importante, mi fece trovare queste parole: “Difficile farti una dedica appropriata; talora, però, una incapacità di dire esprime un dare profondo. Papà. (14 marzo 1987)”.
Mio padre era così con le persone che amava: riservato nelle parole, ma dotato della capacità innata – più che una capacità direi quasi una necessità inevitabile – di trasmettere l’affetto con la presenza, lo sguardo, i gesti piccoli e grandi, le attenzioni invisibili.
Ultimamente aveva rispolverato i suoi appunti, centinaia e centinaia di pagine mai pubblicate, con rammarico. Aveva una grande difficoltà a scrivere: la sua modalità naturale di trasmissione era quella orale e pur nella gioia di sentirla così efficace si doleva del fatto che un giorno tutto quello che aveva “nella testa, sarebbe sparito in un ‘puf’”. Ciò di cui faticava a rendersi conto era invece la propria capacità di trasmettere non per precetti, dati, contenuti, ma – mi viene da dire – per osmosi. Egli non mi ha mai “insegnato” nulla: eppure tutto, assolutamente tutto ciò che io ho raccolto di buono per la mia professione (e non solo), me l’ha dato lui, forse senza nemmeno accorgersene.
Sento che è stato lo stesso per i suoi tanti, affezionati allievi, che non ha mai definito tali considerandoli invece amici, completamente incurante delle differenze di status, di età, di ruolo, di cultura o di esperienza; e credo che sia per questo che da loro lo sento definire sempre Maestro e mai docente.
È andata allo stesso modo nel rapporto con i pazienti che in lacrime hanno appreso la notizia della sua scomparsa improvvisa e in molti casi hanno voluto essergli vicini al momento del funerale, così come si fa per una persona che non è stata “utile”, ma “cara”.
Qualcuno ha talora ricordato il suo “caratteraccio”. È vero, io stesso bisticciavo con lui in continuazione, ma sempre per cose di poco conto. Chi lo amava e lo conosceva anche un poco non ha mai avuto difficoltà ad attraversare certi suoi arricciamenti del pensiero dovuti alle piccole buche che a volte le grandi intelligenze seminano qua e là in un campo altrimenti florido e rigoglioso.
Era, invero, di intelligenza straordinaria e di cultura sconfinata: questo gli veniva riconosciuto universalmente in ambito accademico e non; ma in certi ambienti la stima si trasforma così facilmente anche in piccole invidie, dispettucci, che un uomo che ha dato tanto – gratuitamente nel senso più pieno della parola – forse non meritava. Lo ammetto: ne ha sofferto. Non gli è mancato mai il conferimento di questo o quel titolo per un fatto di ambizione personale (era, in questo senso, invece molto schivo): gli è mancata la riconoscenza, più che il riconoscimento, che alcune di queste privazioni hanno significato per lui.
Con le centinaia di persone che ho sentito e visto in questi giorni, infatti, le sue doti intellettuali sono state menzionate solo distrattamente: le parole che lo descrivevano sono state invece “buono”, “accogliente”, “simpatico”, e queste sono le parole che oggi mi scaldano il cuore.
Le persone che hanno riempito la chiesa l’otto gennaio hanno testimoniato proprio questo: l’amore di tante persone – i parenti vicini e lontani, gli amici d’infanzia e gioventù, i compagni di studi, i cari pazienti, gli amici tutti – lo ha accompagnato con commozione all’abbraccio del Signore.
Mamma, Nicoletta ed io siamo straziati dalla sua scomparsa, ma ci ha lasciato più di quanto possano dire le parole e quanto ci rimane lo sentiamo vivo e presente qui con noi – e non lo dico nei termini formalmente consolatori che facilmente si usano in questi casi.
Molti, nello sconcerto di una notizia così improvvisa, hanno voluto sapere cosa è successo. Papà soffriva da alcuni anni dei consueti acciacchi dell’età che in lui iniziavano a mostrarsi forse un po’ prematuramente; era angosciato dall’idea di un declino progressivo, straziato al pensiero di poter essere un giorno di peso senza rendersi conto che per noi non lo sarebbe comunque mai stato. Era ancora però perfettamente lucido, presente, giusto un po’ dolorante nei movimenti, nulla lasciava quindi presagire una fine improvvisa.
La sera di domenica era stato a cena con gli amici, sereno, spensierato, allegro; pochi giorni fa aveva abbracciato la nipotina che adorava e lo chiamava “nono, nono!”, gonfiandogli il cuore di commozione. La notte, come tante altre volte, passeggiava per casa in attesa di prendere sonno; mia madre era sveglia con lui; è andato via in un istante, senza il tempo di rendersene nemmeno conto. È morto quindi nella casa che amava, con i suoi cari, in un attimo, e così aveva detto una volta avrebbe voluto che succedesse. Questo ci è di grande consolazione.
Vorrei ringraziare tutti uno per uno, ma l’elenco è sterminato. A ciascuno andrebbe un ringraziamento speciale e singolare, persona per persona; così ho cercato di fare con chi ho incontrato in questi giorni. Ma sono qui a testimoniare a tutti l’affetto che a voi forse non ha espresso direttamente, ma a me ha di volta in volta dichiarato o fatto intendere.
Un ringraziamento speciale voglio però esprimere ai suoi fratelli e alle loro famiglie, in particolare Rirì e Marilena, Francesco e Giulia, Lisa e tutti i loro figli; ai fratelli di mia madre e alle loro famiglie, Marisa e Antonio, Maurizio e Giuliana e tutti i loro figli, che ci sono stati vicini nell’affetto e di indispensabile supporto in questi giorni e sempre. A Joe, che avrebbe voluto essere con lui e noi ma ha dovuto prendersi cura della piccola Sofia. A Daniela, che ci sta aiutando tanto. All'amorevole Edmar. Ai tanti che si sono resi disponibili a supportarci, nei fatti e con le preghiere.
Un commosso ringraziamento, mio e della mia famiglia, va ad Antonio Spadaro che ha lasciato perdere tutto per venire a celebrare il funerale e accompagnarlo con parole che hanno detto tutto, assolutamente tutto quello che le parole possono dire, con amore profondo e assoluto.
Già da tempo stavo digitalizzando il suo lavoro più caro, “Genealogia dell’alienazione”, ormai irreperibile. Sarà un lavoro lungo, ma appena possibile lo renderò disponibile, cosicché anche la sua eredità intellettuale rimanga accessibile a chi non ha avuto la gioia di conoscerlo personalmente.
Il resto vive in tutti noi, e di questo lo ringrazio.
Roma, 9 gennaio 2013
Barca
Alberto Gaston, psichiatra
della mia e altrui
nevrosi, osi
lasciarci, andare
al mare, ma non sulle spiagge
brulicanti di stabili
bagnanti, bensì su una precaria
imbarcazione a vela alla ventura. La tela
di altre follie puoi ora tentare
di sbrogliare o scordare, orzando
al vento o alla pace
delle acque senza uno screzio,
quella di Aiace
Telamonio, di Orlando,
di Lucrezio.
Luca Canali
(da “Fuoco di fila”, 1982)