In fin dei conti, se non fossi stato arrestato dalla polizia turca sarei stato arrestato dalla polizia greca. Non avevo scelta: potevo fare solo come mi diceva lui, Harper. È successo tutto per colpa sua.
Tokapi di Eric Ambler si apre con una giustificazione: nulla di ciò che leggeremo nelle pagine seguenti è stato voluto o deciso dal protagonista. Arthur Simpson è in balia degli eventi, della sfortuna, dei capricci di alcuni e degli abusi di altri – ed è, di conseguenza, innocente. Eppure il romanzo lo porta ad attraversare confini militarizzati, contrabbandare armi, mentire alla giustizia di (almeno) due paesi e partecipare in combutta con una gang internazionale a un furto clamoroso. È in maldestro equilibrio su una fune che oscilla pericolosamente, circondato da opzioni terribili e scelte tutte sbagliate.
Arthur vive suo malgrado un’avventura: un’avventura da cui vuole uscire prima possibile – ma pur sempre un’avventura. E ne uscirà, come si intuisce dalle prime righe del romanzo, in un modo assolutamente stupefacente: tale e quale a come era prima.
Letteratura e cinema attingono a schemi ricorrenti il più comune dei quali è un certo “arco” della storia: un inizio (e un personaggio), un problema (e uno sviluppo), un finale (e un cambiamento). Senza questo movimento la lettura o la visione ci lasciano freddi o si limitano a mero intrattenimento. Lo schema è talmente radicato che i pochissimi personaggi che vi sfuggono ci lasciano, spesso, interdetti. Perché dovremmo affezionarci a protagonisti che “non” cambiano? Cui, alla fine, “non succede” niente, nonostante siano loro “capitate” tante cose? Non sono forse essi dei “mediocri” nel peggior senso del termine, cioè persone poco interessanti?
Eppure sono proprio i mediocri che un magistrale F. Murray Abraham-Salieri celebra nella sua “antibenedizione” al termine di Amadeus (Milos Forman, 1984):
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